martedì 12 aprile 2016

una delle battaglie decisive della seconda guerra mondiale.


LA GUERRA DEL DESERTO



All’inizio della guerra, gli alleati (Francesi ed Inglesi) ritenevano che per loro sarebbe stato più utile lanciare un’offensiva contro l’Italia piuttosto che contro la Germania, in Africa settentrionale, infatti la colonia italiana di Libia era chiusa tra i Francesi in Tunisia e gli Inglesi in Egitto. La caduta della Francia, nel giugno del 1940 fece svanire questa prospettiva. Ora che la marina francese era fuori causa, la flotta inglese, da sola, era troppo debole per dominare tutta la rotta mediterranea da Gibilterra all’Egitto. L’importanza del Medio Oriente era data dal petrolio del Golfo Persico. La sua perdita avrebbe costretto la Gran Bretagna a dipendere dal petrolio americano, che andava pagato in dollari.
La minaccia più diretta e grave al petrolio era rappresentata dall’esercito italiano di Libia forte di trecentomila uomini; e il posto più adatto per pararla era l’Egitto. Gli Inglesi possedevano il porto di Alessandria, che era la base della flotta e controllavano il Canale di Suez, che costituiva l’uscita di emergenza; ma dal punto di vista della strategia terrestre l’Egitto bloccava le strade che portavano sia al Golfo Persico sia alla Turchia. Conservando l’Egitto si tenevano i nemici fuori dalla porta dei giacimenti petroliferi del golfo. Tutta la campagna nordafricana dal 1940 al 1943 scaturì dunque dalla necessità di difendere i giacimenti petroliferi del Golfo Persico.
La zona desertica in cui furono combattute le battaglie del 1940-1942 si estende per circa 650 km, da El Alamein a est a Derna a ovest. Gli eserciti si combattevano nella monotona distesa di sabbia e sterpaglia, cui era necessario fare affluire viveri, rifornimenti ed acqua. Lunghe colonne di camion, da un punto all’altro, sostenevano le truppe combattenti mentre depositi e acquedotti provvisori erano esposti alle forze corazzate nemiche. La campagna del deserto fu un episodio unico nella storia del conflitto: fu la guerra nella sua espressione più pura, senza la presenza di civili e di centri abitati se non lungo la costa.
Appena l’Italia entrò in guerra, l’11 giugno 1940, puntate offensive e imboscate sul suo territorio libico affermarono subito la superiorità degli Inglesi. Il comandante italiano era il maresciallo Rodolfo Graziani, che Mussolini incitava ripetute volte ad avanzare, mentre lui era riluttante, perché voleva prima raccogliere scorte sufficienti. Era sua intenzione marciare sul delta del Nilo. Ma Graziani non arrivò mai, invece furono gli Inglesi a preparare l’offensiva. Il primo ministro inglese Winston Churchill, benché la Gran Btretagna fosse minacciata dall’invasione tedesca, volle rischiare d’imbarcare truppe per il Medio Oriente. In quei giorni in Africa Orientale il Duca d’Aosta e le sue truppe furono tagliati fuori dai rifornimenti e da ogni possibilità di soccorsi e di rinforzi dall’Italia. Gli Italiani, in Africa, avevano carri armati che non erano un gran che, ma i pezzi di artiglieria erano il doppio di quelli inglesi. Durante quelle battaglie furono presi ben 38.000 prigionieri italiani, oltre i caduti e le armi venute in possesso del nemico. Di battaglia in battaglia, una campagna cominciata come un piano di difesa dell’Egitto ( da parte degli Inglesi) puntava adesso alla distruzione della potenza italiana prima in Africa e poi forse sul territorio nazionale. Ma la situazione cambiò quando il 12 febbraio 1941 arrivò a Tripoli il tenente generale Erwin Rommel, soprannominato poi “la volpe del deserto”, che molto prima che lo stesso comando supremo tedesco avesse mai immaginato, attaccava gli Inglesi con rapidità e agilità sbalorditive e di vittoria in vittoria si fermò subito dopo la frontiera egiziana solo perché aveva esaurito le scorte.
Da quel momento in poi il duello con Rommel nel deserto occidentale avrebbe sempre più affascinato gli Inglesi, e in special modo il primo ministro Churchill. Il deserto occidentale era il solo posto in cui l’impero britannico potesse battersi con la Germania su un fronte terrestre e si voleva riportare una grande vittoria sulle forze corazzate di Rommel. Per gli Inglesi le prospettive non erano buone: il loro esercito aveva cominciato ad addestrarsi nelle moderne tecniche della guerra corazzata con cinque anni di ritardo rispetto ai Tedeschi e non aveva perciò la loro esperienza operativa. Winston Churchill continuava ad esortare i comandanti ad attaccare, senza capire fino in fondo la fragilità dell’esercito. I primi insuccessi degli Inglesi furono dovuti alla superiorità tattica dei Tedeschi e alla inesperienza inglese; gli Inglesi, per esempio, caricavano secondo lo stile dell’antica cavalleria, mentre i Tedeschi restavano sulla difensiva, attirando il nemico davanti alle loro batterie anticarro. A poco a poco l’ostinazione inglese ebbe ragione del nemico e costrinse i Tedeschi a ripiegare. Ma l’ attacco giapponese facendosi sempre più violento, due divisioni inglesi dovettero abbandonare l’Africa per correre in aiuto agli americani; Rommel ne approfittò dando prova ancora una volta della sua tempestività e agilità, sbaragliando la nuova divisione appena arrivata dalla Gran Bretagna. Con il bluff e il rischio Rommel, la volpe del deserto, avanzò di vittoria in vittoria, tanto che la disfatta inglese sembrava ormai certa. Rommel entrò in Egitto e l’Egitto stesso e tutte le posizioni inglesi nel Medio Oriente sembravano minacciati dalla catastrofe
Comandante in capo dell’ Africa Korps, il corpo di spedizione tedesco in Africa settentrionale, Rommel si spinse con alterna fortuna fino ad El Alamein. La sua cavalleresca condotta di guerra venne riconosciuta anche dagli avversari.
Ad El Alamein, una prima battaglia ebbe uno svolgimento molto fluttuante: essa fu infatti soprattutto un scontro di volontà di due generali. In questa prima battaglia furono impiegate anche le forze della fanteria italiana. Contro di loro furono sferrati in pochi giorni ben sei attacchi, tanto che Rommel per scongiurare il collasso completo del fronte, fu costretto a far scendere nel campo anche le sue ultime riserve di Tedeschi. I contrattacchi britannici furono anch’essi un fallimento, perché la fanteria britannica veniva massacrata dalle truppe corazzate tedesche, dato che i carri armati inglesi non intervenivano in tempo e dato che le condizioni delle comunicazioni radio erano pessime.
Anche se Rommel non fu costretto alla ritirata, la prima battaglia di El Alamein aveva salvato l’Egitto e il Medio Oriente.
Fu quella una delle battaglie decisive della seconda guerra mondiale.
Nel frattempo i governi inglese e americano avevano preso una importante decisione strategica. Invece di tentare l’invasione della Francia nel 1942, impresa che appariva disperata con le truppe e i mezzi disponibili allora, gli alleati sarebbero sbarcati nell’Africa settentrionale francese e avrebbero liberato tutta la costa africana del nord. Ciò avrebbe reso tranquillo al traffico alleato il Mediterraneo e nello stesso tempo accontentato Stalin con l’apertura di un secondo fronte. Con l' occupazione dell’Algeria e della Tunisia  il contesto della guerra nel desertomutò. Lo stesso Churchill si recò al Cairo per incontrarsi con il capo dello stato maggiore. Essendo stato abbattuto l’aereo che riportava il generale inglese al Cairo ed essendo questi morto, per una strana coincidenza del destino, fu nominato generale Montgomery, uomo di leggendaria eccentricità e di intransigente professionismo. Non aveva mai avuto comandi sul campo, non aveva mai avuto ai propri ordini masse di forze corazzate, ed era nuovo al deserto, ma aveva una brillante chiarezza di idee e una visione molto realistica delle possibilità di uomini e di truppe; aveva inoltre una capacità ineguagliabile di ridurre le questioni più complicate ai loro elementi più semplici. Egli seppe valutare con cura la situazione bellica, seppe organizzare le strategie adatte ad affrontare il nemico e nella seconda battaglia di El Alamein riuscì a sfondare il fronte nemico fino a giungere a Tripoli.

Il 23 ottobre del 1942, allorché l’ VIII armata del generale Montgomery iniziò l’offensiva da El Alamein, si iniziò il nuovo corso della guerra.

 rosalia de vecchi

martedì 5 aprile 2016

Adrienne Lecouvrieur, la più grande attrice del settecento


Beaux-Arts, Châlons-en-Champagne.


Adrienne Lecouvrieur, la più grande attrice del settecento

Non era bella né regolare di lineamenti, ma dotata di un’indescrivibile grazia di portamento e di modi, affascinava con la straordinaria musicalità della sua voce, con il lampo di fuoco dei suoi occhi scuri e con l’espressione mutevole del suo volto. Tutto nel suo muoversi esprimeva la sua personalità o, sulle scene, quella del personaggio che interpretava.
Scelse di non aderire a quel tipo di recitazione solenne e alquanto declamatoria delle attrici che l’avevano preceduta ma di mantenersi naturale sia nella parola che nelle movenze e restò assai ferma e scrupolosamente attenta nel badare ad articolare le parole molto bene e in modo che la sua voce venisse sentita fin negli angoli più lontani.



Nella Parigi della fine del 18° secolo il teatro ebbe un posto di primo piano. Persino la frequentazione dei salotti letterari era subordinata a quella dei teatri.
Voltaire diceva a Marmontel nel 1745: “Il teatro è la carriera più affascinante di tutte; qui puoi ottenere in un solo giorno gloria e fortuna, basta un solo successo a rendere un uomo ricco e celebre.” .
Egli, infatti, amò molto il teatro tanto che, durante la sua convivenza con Émilie du Châtelet nel castello di Cirey, nella Champagne, se ne fece costruire uno dove rappresentare le sue opere e dove poter far recitare Emily, ch’egli riteneva attrice eccellente, dotata di una “voix divine”.
Dappertutto, anche in provincia, vi erano teatri. I ricchi avevano teatri privati. Ma Parigi era il centro più vivace, dove il Théâtre-Français con la Comédie-Française , il Théâtre des Italiens e l’Opéra Comique, oltre che l’Opéra del Palais- Royal, erano sempre affollati : i privilegiati in comode poltrone ed eleganti palchi, il pubblico comune in piedi nello spazio oggi chiamato platea.

Nonostante la passione e l’entusiasmo per il teatro, la condizione degli attori, migliorata socialmente ed economicamente in seguito all’interesse per il genere dimostrato dai nobili e dallo stesso re, non era migliorata nei confronti della Chiesa, che si irrigidiva nei suoi pregiudizi negativi continuando a vedere nella loro attività una fonte di esempi scandalosi e che infatti li scomunicava, così che essi morendo non potevano ricevere sepoltura in terra consacrata, vale a dire in nessun cimitero di Parigi.
Voltaire si batté molto per rivendicarne i diritti, ma con scarso successo.
L’assurdità di questa situazione era che, mentre lo stesso re ordinava loro delle commedie e li pagava anche bene, la Chiesa li scomunicava ipso facto. Voltaire a tal proposito scriveva: “…
il re comanda loro di recitare ogni sera, mentre le leggi ecclesiastiche impedirebbero loro di recitare assolutamente. Se non recitano vengono gettati in prigione, e se recitano vengono gettati nelle fogne.”.

Un esempio di questa contraddizione ci è fornito dalla vita e dalla morte della più grande attrice dell’epoca presa in esame: 
Adrienne Lecouvreur.


Nata il 5 aprile del 1692 presso Reims, da genitori di umile condizione, il padre era cappellaio e la madre lavandaia, a 10 anni Adrienne si trasferì con la famiglia a Parigi nei pressi del Théâtre-Français, dove spesso entrava e vi ammirava le attrici, che presto imparò ad imitare molto bene. A soli 14 anni si unisce ad una piccola compagnia filodrammatica formatasi nel quartiere, o forse da lei stessa creata, e cominciò ad esibirsi nei teatri privati.
La sua interpretazione di Paolina nel Poliuto di Corneille fu notata da Madame Du Guè, una dama dell’aristocrazia parigina, che la invitò nel suo palazzo, e qui la replica le ottenne un grandissimo successo, oltre che l’attenzione del maestro Le Grand che le diede lezioni di recitazione e nel contempo le procurò un posto in una compagnia che recitava a Strasburgo.
Così, per una decina d’anni, di tournée in tournée, interpretò svariate parti nei teatri di provincia; commosse la giovane sposa di Luigi XV quando recitò in presenza sua e del re.
Nel maggio del 1717 debuttò con grande successo alla Comédie Francaise. Vi rimase attrice fissa per tredici anni, durante i quali si esibì con successo in 1184 rappresentazioni. Ne divenne la signora indiscussa.
Come spesso accade, per questo ebbe nemiche diverse attrici della Comédie, gelose del suo successo; tra cui la Duclos.
Unendo alla bravura eleganza e raffinatezza, riscuoteva molta ammirazione ed era assai richiesta nei salotti di Parigi. Non era bella né regolare di lineamenti, ma dotata di un’indescrivibile grazia di portamento e di modi, affascinava con la straordinaria musicalità della sua voce, con il lampo di fuoco dei suoi occhi scuri e con l’espressione mutevole del suo volto. Tutto nel suo muoversi esprimeva la sua personalità o, sulle scene, quella del personaggio che interpretava.
Scelse di non aderire a quel tipo di recitazione solenne e alquanto declamatoria delle attrici che l’avevano preceduta ma di mantenersi naturale sia nella parola che nelle movenze e restò assai ferma e scrupolosamente attenta nel badare ad articolare le parole molto bene e in modo che la sua voce venisse sentita fin negli angoli più lontani.
Pur se la sua carriera fu breve, la Lecouvreur riuscì a portare una vera rivoluzione nell’arte della recitazione, sia per la profondità del suo sentire che per l’eccellente sua arte espressiva che la rese capace di portare sulle scene i diversi sentimenti dell’animo umano: la tenerezza, la passione, il pathos, il terrore…
Se questa sua scelta di stile fu giudicata come eccesso di modernismo da alcuni, fu anche, e di fatto, ispirazione feconda per numerosi attori che da lei e dal superamento della tradizione seppero condurre avanti un’evoluzione dell’arte drammatica.

La Lecouvreur mentre recita una pièce di Pierre Corneille, ritratta daAntoine Coypel.

Mirabile interprete dei grandi ruoli tragici, il pubblico e la critica vollero sempre vederla soprattutto ad essi connessa.
La contraddistingueva una dote piuttosto rara: quella di saper ascoltare gli altri con attenzione e comprensione.
Gli uomini, specialmente giovani, si innamoravano di lei. Qualcuno perdeva la testa per lei.
Molto bella la storia del conte d’Argental che a 85 anni scoprì la lettera da lei mandata a sua madre molti anni prima, quando, a causa del suo amore per Adrienne, questa temette che la chiedesse in sposa, e perciò decise di mandarlo in colonia. “ Gli scriverò qualsiasi cosa voi vorrete. Se lo desiderate non lo rivedrò più, ma non minacciate di mandarlo all’altro capo del mondo. Egli può essere utile al suo paese, può essere la gioia dei suoi amici, e dare a voi soddisfazioni e gloria; non avete che da indirizzare le sue capacità e lasciare agire le sue virtù.”.
Il conte d’Argental fu infatti consigliere del Parlamento di Parigi.
Questa attrice di spiccata personalità artistica fu anche una donna e, come tale, conobbe tutte le gioie e le esaltazioni dell’amore, ma anche tutti i suoi dolori e gli abbandoni: ebbe molti amori, fin da giovinetta! E dell’amore ebbe il frutto, divenendo madre a 18 e a 24 anni.
Fu molto amica di Voltaire, qualcuno dice: “più che amica”.
Di Voltaire recitò l’Edipo.
Il rapporto sentimentale che la coinvolse di più fu quello con Maurizio di Sassonia, con cui ebbe un legame duraturo ma finito con la lontananza e il tradimento di lui.
Maurice de Saxe, non ancora famoso per le sue vittorie militari, ma giovane bello e romantico, assisteva alle sue interpretazioni sceniche, se ne innamorò e le giurò eterno amore.
Lei ne accettò l’amore che ricambiò con pari ardore e vissero insieme anni di tenerezza e fedeltà tali che in loro gli amici videro le due tortore innamorate di La Fontaine.
Ma Maurice, già maresciallo di campo, aveva un sogno: crearsi un regno. Partiva e andava in Curlandia; da lui lontana, Adrienne rendeva sempre più brillante il suo salotto parigino, frequentato da uomini eccellenti che ammiravano e apprezzavano non soltanto il suo delizioso garbo ma anche la sua acuta intelligenza: Voltaire, Fontenelle, d’Argental, … e donne prestigiose.
Maurice tornò finalmente: sconfitto e… non più innamorato.
Ora i suoi ardori erano diretti verso altre donne: Luisa di Lorena, duchessa de Bouillon, che lo corteggiava senza ritegno.
Sulle scene, durante l’interpretazione della Fedra di Racine, Adrienne le indirizzò i versi:“ Non sono una di quelle donne sfrontate
Che, mantenendo nel delitto, una pace tranquilla,
hanno imparato a mostrare una fronte che non sa arrossire.”
Adrienne non molto tempo dopo fu informata da un abate pittore, Siméon Bouret, che due agenti mascherati di una dama di corte avevano tentato di persuaderlo a somministrarle del veleno in cambio di una lauta ricompensa.
Adrienne denunciò il fatto alla polizia, che trattenne l’abate fino a che lei stessa non scrisse una lettera nella quale ne chiese la liberazione.
L’abate, tuttavia, non ritrattò mai la sua dichiarazione.
Nel febbraio del 1730 l’attrice cominciò ad accusare disturbi sempre più frequenti di dissenteria.
Svenne anche durante una recitazione. Era il 15 marzo, quando, pur con pochissime forze, portò a termine l’interpretazione di Giocasta nell’Edipo di Voltaire.
Due giorni dopo fu a letto in preda ad un’emorragia mortale.
La Chiesa le rifiutò i sacramenti e la sepoltura in terreno consacrato.
Maurice non venne a salutarne la dipartita, ma Voltaire la tenne tra le braccia durante il trapasso ed un amico assoldò due portatori di torce per accompagnare le sue spoglie con una carrozza da nolo e inumarle clandestinamente lungo le rive della Senna.
In quel punto ora vi è la la rue de Bourgogne.
In quello stesso anno, 1730, l’attrice inglese Anne Oldfield venne sepolta con pubblici onori nell’Abbazia di Westminster.

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Voltaire scrisse un poema intitolato “la morte di mademoiselle Lecouvreur”, in cui dice che colei che aveva affascinato il mondo con la sua arte, era stata punita da un’indegna sepoltura ma, onorata dal suo canto e consacrata agli dei è divenuta ora un nuovo tempio.

© rosalia de vecchi

venerdì 1 aprile 2016

Glastonbury fu l'"isola di Avalon"?

Glastonbury fu l'"isola di Avalon"?



qui si pensa sepolto il grande re Artù

A 30 miglia a sud di Bristol, nella campagna del Wessex, nel Somerset, in Cornovaglia, si trova una piccola città di nome Glastonbury, meta molto frequentata di visitatori e di pellegrinaggi. Un tempo vi sorgeva la più grande ed antica abbazia costruita da monaci cristiani nei primi secoli dopo Cristo.




Di essa oggi restano solo alcune rovine e una torre di pietra, la Glastonbury Tor, privilegiato punto di osservazione, che si erge in tutta la sua verticalità nel mezzo di una delle verdissime colline di Mendip.



La leggenda dice che il primo a fondare un monastero in quest'area sud-occidentale dell'Inghilterra, dove la penisola di Cornovaglia si restringe, trent'anni dopo la morte di Cristo, sia stato Giuseppe d'Arimatea, il ricco commerciante che, come è detto nel Vangelo di Matteo, chiesto a Pilato il corpo del Cristo, dopo averlo avvolto in un "candido lenzuolo", lo depose nella sua tomba nuova, dove l'ospitò durante i tre giorni che precedettero la Risurrezione.Sempre secondo la leggenda, è qui che Giuseppe D'Arimatea avrebbe portato il Santo Graal, la coppa in cui Cristo bevve il vino durante l'ultima cena con i suoi discepoli.

Si racconta che Giuseppe d'Arimatea abbia visitato la località insieme a Gesù fanciullo ancor prima l'aver fatto erigere l' Abbazia, per fargli visitare la scuola druida di Avalon, Il grande pittore e scrittore William Blake, avendo accolto questo racconto come fatto reale, ne fece materia del suo famoso poema Gerusalemme, che divenne poi la più popolare canzone patriottica inglese. Egli, che fu un poeta e pittore mistico, credeva nella profezia biblica della "Nuova Gerusalemme", in base alla quale dall'Ellegand, ossia "La Terra degli Angeli", (nome che sarebbe divenuto poi England), avrebbe avuto origine una nuova civiltà, prendendo le sue origini proprio dal "Tempio dei Druidi" di Stonehenge e Avebury.


Secondo dunque questa tradizione, Giuseppe D'Arimatea, sbarcato a Glastonbury, piantò a terra il suo bastone, che fiorì miracolosamente nel Biancospino di Glastonbury, biancospino detto anche "Spina Santa", che cresce soltanto intorno alla città e che fiorisce due volte l'anno: in primavera e a Natale, quando ne viene tagliata una spina e inviata alla regina per ornare la sua tavola. Ed ancora si dice che la Spina Santa originaria, che nel Medioevo è stata oggetto di pellegrinaggio, sia stata distrutta da un soldato durante la guerra civile e che questo soldato sia stato accecato; gli abitanti hanno piantato sulla collina di Wearyall un nuovo biancospino solo oggi, nel XX secolo. Il "Rovo di Glastonbury" con la sua Spina Santa, a detta dei botanici appartiene ad una specie originaria della Palestina, sconosciuta in Europa.




Storicamente si sa che il primo monastero di Glastonbury venne fondato da monaci cristiani, recatisi in questi luoghi per predicare la Buona Novella, tra il IV ed il V secolo d. C.; la fondazione di questo primo monastero è confermata da antichi scritti del monaco Beda e di Guglielmo di Malmesbury.Il luogo tuttavia era già prediletto dai Celti che vi svolgevano riti druidici.

Quando, intorno al 670 d. C., l'abbazia fu rifondata da monaci benedettini, in breve acquistò ricchezza e rilevanza politica; re Enrico II ordinò loro di scavare in quello stesso luogo perché voleva ritrovarvi la tomba di re Artù e della regina Ginevra. Si dice che i monaci finirono per trovare, nel 1191, una pietra tombale con un'iscrizione in bronzo che diceva: Qui nell'isola di Avalon giace sepolto l'illustre re Artù, insieme a Ginevra, sua seconda moglie.". La leggenda dice anche che nello stesso VII secolo San Patrignano, in visita ai monaci di Glastonbury, abbia trovato la tomba di San Giuseppe, sulla quale volle che venisse costruita una bella chiesa in legno tutta decorata, chiesa che poi fu distrutta in un incendio nel XII secolo. Secondo questa tradizione fu durante i lavori della Chiesa che venne alla luce una croce con iscritto "Hic iacet inclitus Rex Arturius in insula Avalonia " (Qui , nell'isola di Avalonia, giace il famoso Re Artù).


Di entrambi gli epitaffi oggi non è rimasto nulla, ma di fatto le spoglie di un uomo e di una donna trovate sotto terra furono inumate nel 1278 davanti all'altare principale della nuova abbazia ivi eretta ed Edoardo I volle dare molto risalto a questo avvenimento. Infatti sia lui che Enrico II, sapendo che nei confronti dei Normanni di Guglielmo il Conquistatore, nel 1066, l'unica resistenza significativa era stata organizzata in Galles e in Cornovaglia, volevano individuarne il capo nel leggendario re Artù e dimostrarne perciò la reale esistenza, così da farne una tradizione nazionale.


Lo storico inglese Goffredo di Monmouth, nella sua "Historia Regum Britanniae"narra che re Artù malato fu portato ad Avalon dove venne curato e guarito dalla "fata Morgana", all'epoca feudataria e madre superiora delle dodici suore cui era affidata la cura e la custodia del santuario; quando poi il re trovò la morte in battaglia, la sua salma venne portata a Glastonbury e qui sepolta.

Parecchio tempo dopo, con la Riforma Protestante, l'abbazia cominciò la sua decadenza e venne poi ridotta a una cava di pietra per costruire nelle vicinanze case e palazzi. Anche la presunta tomba di Artù e Ginevra fu dispersa per essere di nuovo identificata soltanto nel 1934.
Oggi le rovine dell'intero complesso sono sparpagliate in una cornice di prati verdeggianti e di boschi rigogliosi. Vi si trovano due sorgenti: tra le colline di Chalice e di Tor, la Chalice Well o Sorgente rossa, detta anche Sorgente del Sangue, per i suoi depositi rossastri e rugginosi, poiché è ricca di minerali di ferro e la Sorgente Bianca, dal colore chiaro per l’alto contenuto di calcio, sul lato opposto della collina di Chalice.


Per quanto riguarda l'ubicazione di Avalon, senza dubbio , una delle tesi la vorrebbe proprio qui: la collina dove ora sorge la torre, secondo tale ipotesi, si chiamava Avalon.

La pianura sottostante un tempo paludosa e coperta dall'acqua faceva apparire il rilievo della collina come fosse un'isola.
© rosalia de vecchi