giovedì 30 aprile 2015

kaspar Hauser



L'enigma di Kaspar Houser, chiamato "Il fanciullo d'Europa", non ha mai smesso di affascinare; su di lui sono stati scritti più di 3.000 libri e 14.000 articoli, sono state realizzate anche due pellicole cinematografiche e numerose pièce teatrali.


Il 26 maggio 1828 , il lunedì successivo alla Pentecoste, tra le quattro e le cinque del pomeriggio, comparve all'improvviso, in una piazza di Norimberga, un ragazzo dell'età all'incirca di 16 anni, che sapeva dire solo pochissime parole, tra cui il proprio nome, o almeno quello che lui credeva fosse il suo.
Indossava abiti da contadino, aveva un'andatura goffa e guardava dappertutto come fosse la prima volta.
La sua apparizione fu notata, dapprima, da un calzolaio che, vista la sua aria sperduta e la sua difficoltà di reggersi in piedi, lo condusse con sé a casa propria. Ma, malgrado questi cercasse di sapere qualcosa su di lui, il ragazzo non era in grado di fornirgli informazioni, invece gli consegnò una lettera indirizzata al Capitano dei Cavalleggeri di Norimberga. Una strana lettera, invero, in cui chi scriveva diceva di essere un povero lavorante a giornata, con dieci figli a carico, che tuttavia si era preso cura del ragazzo, il quale sarebbe stato desideroso di entrare nell'arma. E aggiungeva che qualora il Capitano non avesse voluto tenere il ragazzo, poteva ucciderlo o farne ciò che voleva. Alla lettera era accluso un biglietto in cui s'informava che la data di nascita del ragazzo era il 30 aprile dell'anno 1812.
La misteriosa lettera, nelle mani di un ancor più misterioso ragazzo, come si può ben immaginare, fu fatta oggetto di accurato esame e indagini da parte degli organi di polizia.
Nel frattempo, però, Kaspar fu accusato di essere un bugiardo e un vagabondo, perciò fu messo in carcere.
Ma il suo carceriere non era persona qualunque, era invece persona attenta e intelligente, dotata di sensibilità, per cui non poteva sfuggirgli che i piedi del ragazzo non erano induriti dal lungo camminare come nei vagabondi, ma erano invece soffici come quelli di un bambino e che come un bambino che fa i suoi primi passi, così anche questo ragazzo misterioso faceva fatica a camminare proprio come se dovesse anche lui imparare a farlo.
Durante il suo soggiorno in carcere il ragazzo fu visitato da un medico. Così fu appurato che non si trattava di un ragazzo ritardato, ma di un ragazzo cui , per motivi ancora sconosciuti, era stato impedito il normale sviluppo delle facoltà mentali e sociali. Inoltre il medico diagnosticò una malformazione al ginocchio, a causa della quale era ostacolato l'allungamento delle gambe. Questo, egli rilevò, era l'effetto di posizioni costrette in spazi ristretti.
Il ragazzo fu aiutato dal carceriere e dai membri della sua famiglia in questa sua prima fase di vita dal momento della sua apparizione. Il carceriere fu persona importante per lui e così la sua famiglia. Essi lo assistettero con amore e dedizione e così fu che da loro Kaspar apprese ad usare le prime parole, ad assumere i primi comportamenti “umani” della vita quotidiana.
Egli, infatti, poteva nutrirsi solo a pane ed acqua, non conosceva l'uso delle posate; ogni impressione sensoriale gli procurava una reazione violenta e dolorosa... anche gli alberi e la natura in genere. Vedeva benissimo di notte, anche gli accostamenti più difficili, e molte altre rare anomalie...
Destava la curiosità di tutti, che volevano vederlo, toccarlo...
Poi addirittura ci fu una folla di gente che andò a trovarlo, portandogli regali di ogni genere e suscitando la sua vanità...
La sua popolarità crebbe giorno dopo giorno e i giornali parlarono a lungo di lui.
Ma tutta la breve vita di questa singolarissima individualità è segnata da momenti in cui egli, uscendo dal buio mistero della sua infanzia, tocca le punte più alte della popolarità e diventa centro di interesse e di amore, soprattutto per quelle personalità che appaiono a lui legate da sottili fili di destino e a cui egli deve le varie fasi di quello che potremmo chiamare il suo “risveglio”, a fasi in cui l'anomalia stessa della sua apparizione e le manifestazioni sia delle assenze che della geniale rapidità in cui egli si riappropria, potremmo dire, di umane competenze ma superiori alla media, lo fanno essere oggetto di tal curiosità che finisce per un periodo persino nel circo!
Dopo varie vicende, finalmente fu affidato alle cure del prof. Daumer, uno stimato insegnante della città.
Stupisce enormemente il modo in cui Kaspar in pochi mesi abbia imparato a leggere e scrivere, ad occuparsi di musica.... e d'altro , manifestandosi, a soli 20 anni, uno spirito dotato di sensibilità ed intelligenza assai elevate.
Era di natura gentile e di completa innocenza e purezza morale;
Pote' ritrovare la consapevolezza di sé e ricostruire la sua storia: aveva passato dalla primissima infanzia fino a 16 anni  in una cella buia, dal tetto così basso che egli non poté, per tutto quel tempo raddrizzarsi in piedi ed assumere la posizione eretta. L'unico arredo era un materasso di paglia. Il solo contatto umano era costituito da un uomo che gli portava pane e acqua, lo puliva, gli tagliava unghie e capelli... L'unico oggetto che possedeva era un cavalluccio di legno che gli era stato donato nella sua cella da piccolo.
Un giorno un uomo, entrato nella sua cella, gli insegnò a scrivere il suo nome e a dire “voglio essere un soldato come lo era mio padre.” .
Dopo che Kaspar ebbe ben imparato queste due cose, l'uomo se lo caricò in spalla e lo condusse via dalla sua cella, all'aperto.
Il ragazzo svenne, forse a causa dell'aria fresca e della luce, e non ricordava null'altro, fino al momento in cui si riprese a Norimberga, dove vagava in cerca del Capitano dei Cavalleggeri.
Kaspar fu poi tolto dalle felici mani del prof. Daumer e passò da un egregio signore all'altro: un barone, un ricco uomo d'affari, un austero maestro di scuola, un ambiguo lord, fino a quando, il 14 dicembre 1833, nel parco di Ansbach, venne pugnalato da uno sconosciuto e morì tre giorni dopo. Fu sepolto nel cimitero della cittadina bavarese.
L'attentato, per mano di un ignoto, fece crescere molti sospetti ch'egli fosse vittima di una cospirazione.
La cosa che fece e che fa ancora stupire persino la scienza è che , pugnalato al cuore, Kaspar sia sopravvissuto per 15 giorni ancora.
La cosa che commuove profondamente è che, secondo la testimonianza del prete che lo assistette prima della morte , egli abbia avuto parole di pace e d'amore e di perdono per tutto il mondo!
Ciò che suscita profonda riflessione, se non addirittura inquietudine, è che dopo tre giorni di agonia, abbia pronunciato: Il mostro è divenuto troppo grande per me.
Per alcuni un fenomeno vivente, per altri un impostore, per qualcuno un rampollo del principe del Baden, vittima sacrificale di intrighi dinastici.
Anselm von Feuerbach (1775-1833), giurista fautore del principio “nulla poena sine lege”, se ne occupa nel suo libro omonimo, accogliendo la seconda ipotesi, che gli studi successivi riconoscono. La morte del giurista avvenuta nel maggio del 1833, per un malore improvviso, morte che si è pensato sia stata dovuta ad arsenico, per presenza rinvenuta di sintomi di avvelenamento,  getta il sospetto che egli sia stato avvelenato perché aveva scoperto la verità su Kaspar Hauser. Di nobili natali, egli diceva di Kaspar e relegato da parte per evitargli la successione.
Una successione, noi diciamo, scomodissima per quelli che avevano forte interesse che un così dotato principe non potesse mettere in atto delle riforme che avrebbero cambiato il corso degli eventi della storia del mondo!
Rudolf Steiner, durante la sua intensa attività di conferenziere, ebbe a toccare anche lui questo argomento: egli ci parla di un principe destinato ad introdurre nel sud della Germania quella tripartizione sociale che si sarebbe diramata in tutta Europa ed avrebbe creato le condizioni di un sano processo storico, impedendo i mali tremendi vissuti dall'umanità nel '900, ed oggi ancor presenti. Correnti esoteriche negative che sapevano ciò e ne volevano impedire la realizzazione misero in piedi il diabolico piano: rapire e sostituire il principe in fasce, sottoporlo alla condizione che non favorisce lo sviluppo dell'io, ossia la forzata posizione non verticale, liberarlo quando ormai ritenuto, dal proprio punto di vista ovviamente, innocuo.
Ma quando la personalità fortissima del principe sta ricostruendosi, non si trova altro modo per liberarsene che farlo fuori.
Nei giardini dove fu accoltellato gli fu eretto in seguito un monumento, con una lapide che recita:

 "HIC OCCULTUS OCCULTO OCCISUS EST"
 ("QUI UN TIPO MISTERIOSO FU UCCISO IN MODO MISTERIOS O").


© rosalia de vecchi










martedì 28 aprile 2015

Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun

Autoritratto, Firenze 1790



Morbidi, ad olio, a cere, acquerellabili, sfumini…. bianchi, neri, colorati, luminosi …. i pastelli sono bastoncini in cui la colla è in minima percentuale, per cui imprimono sulla carta colori purissimi , luminosi, che possono essere fissati con un fissante o protetti da un vetro….

La tecnica del pastello è stata praticata da molti dei grandi pittori fin da quando il francese Jean Perréal la inventò negli ultimi anni del ‘400: da Leonardo agli Impressionisti come Manet , Monet, Degas… ché ben si confaceva alla pittura en plein air, da Lautrec, …a Picasso….

Tra le pittrici che usarono la tecnica del pastello vi fu, nel ‘700, Rosalba Carriera e tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800 Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun, la famosa pittrice francese ritenuta una delle più grandi ritrattiste del suo tempo. 
La pittrice raffinatissima di ben 900 opere compiute in 86 anni di vita, come lei stessa annovera nelle sue memorie! Di grande fascino i nitidi suoi autoritratti, come quello conservato alla Galleria degli Uffizi a Firenze in cui la giovane Élisabeth ritrae se stessa nell’atto di dipingere Maria Antonietta, o come il tenerissimo abbraccio dell’Autoritratto con la figlia conservato al Louvre! E di grande pregio i numerosi ritratti, circa una ventina, che l’artista fece di Maria Antonietta, tra i quali i più noti e famosi - i testi di storia ne sono pieni! –: il Ritratto di Maria Antonietta con in mano una rosa e il Ritratto di Maria Antonietta con i figli, entrambi conservati, come la maggior parte, nel castello di Versailles. Quest’ultimo ritratto, commissionato con l’intento propagandistico di dare al popolo francese un’immagine della propria regina che contraddicesse l’opinione diffusa di una sovrana disattenta nei confronti dei propri doveri di madre, esalta l’aspetto della bellezza e dell’armonia della famiglia, utilizzando una sapientissima tecnica, che mette in risalto l’eleganza degli abiti, i toni rosati dei volti, gli atteggiamenti pur dotati di una certa solennità ma innanzitutto eleganti e garbatamente affettuosi dei componenti della famiglia reale. Quegli stessi abiti di moda, che diceva di detestare, Élisabeth-Louise riusciva a drappeggiare e a conformare secondo i dettami della propria fantasia, rendendoli mossi nelle forme e vivi nello splendore dei colori e conferendo all’insieme, nei suoi quadri, una naturalezza, quasi una spontaneità, che non turbò, ma se mai esaltò, l’eleganza raffinata delle sue opere.
Dei suoi tanti autoritratti la critica a lei contemporanea pronunciò giudizi talora contrastanti come ad esempio “pieni di grazia” o troppo narcisiste… ma nessuno ha mai loro negato la bellezza e l’abilità d’esecuzione. Élisabeth-Louise aveva imparato dal grande Rubens le tecniche luministiche nel trattare il colore e quelle della composizione, come è stato rilevato nell’ Autoritratto col fiocco rosso, che la mostra a 27 anni, con il cappello piumato, lo sguardo azzurro e i capelli biondi lasciati fluidamente cadere sulle spalle, immagine di avvenenza e di indubbia bellezza, che infatti così la dissero i suoi contemporanei.
Nata a Parigi nell’aprile del 1755 Élisabeth-Louise Vigée-Le Brun fin da piccolissima dimostrò le sue doti artistiche ed il padre, che era anche lui pastellista, le riconobbe e le accolse con grande entusiasmo. Fu la morte del padre che la spinse, piena di dolore, a gettarsi a capofitto nel disegno, così che giovanissima era già conosciuta e protetta dalla duchessa di Chartres. Sposatasi la madre in seconde nozze con un ricco gioielliere, Élisabeth andò ad abitare in rue Saint-Honoré, la prestigiosa rue Saint-Honoré, proprio di fronte al Palais-Royal. Era bella, era ammirata, ma lei mantenne sempre un comportamento semplice e riservato. Nel 1783 fu ammessa alla Accademia Reale di pittura e scultura. Nel settecento le donne pittrici erano diventate molte rispetto ai tempi precedenti e questo, che generava un’ inevitabile competizione con gli artisti uomini oltre che tra di loro stesse, ebbe come conseguenza l’adozione di una serie di restrizioni nella loro assunzione nelle Accademie. Si era intanto sposata con Jean-Baptiste-Pierre Le Brun, pittore anche lui ma dedito al gioco e alle donne, tuttavia buon mercante d’arte, cosa che favorì la vendita delle opere di Élisabeth. Nel 1780 nacque la sua unica figlia, Jeanne-Julie-Louise; il quadro che le ritrae insieme è bellissimo, molto vivo ed intenso. La sua fama giunse alla regina Maria Antonietta che la scelse come sua pittrice personale. La rivoluzione la fece fuggire insieme alla figlia da Parigi e la frase che dicono abbia pronunciato qualche tempo dopo «Allora regnavano le donne. La rivoluzione le ha detronizzate», di fatto contiene una gran parte di verità.
L’artista, che volle estraniarsi dagli orrori della rivoluzione rifiutandone persino le notizie che le avrebbero procurato troppo dolore per la perdita di tanti cari amici, viaggiò per Europa soggiornando presso le corti dei principi che la invitavano a prestar loro la sua opera e tornò a Parigi solo qualche tempo dopo la fine della rivoluzione.
Dipinse, tra l’altro, il ritratto di Carolina Murat, una delle sorelle di Napoleone e resta celebre il suo commento: “Ho dipinto delle vere principesse: non mi hanno mai infastidita e non mi hanno mai fatto aspettare”
Morì nel 1842.
Prima di concludere la sua lunga vita tutta intensa d’arte e d’amore per la pittura, Élisabeth pubblicò i "Souvenirs", opera autobiografica, che è storia della sua vita di donna sposa e madre, ma soprattutto è storia del suo percorso creativo, del suo immenso entusiasmo per la pittura, la quale per lei non fu un fatto intellettuale quanto invece una vocazione spontanea. I souvenirs nel contempo sono preziosa fonte di notizie relative alle vicende le mode le pulsioni e i comportamenti di una parte della società europea di quegli anni complessi in cui visse la loro autrice.



© rosalia de vecchi
autoritratto a 15
anni

lunedì 20 aprile 2015

Caterina d'Aragona


Michael Sittow, Caterina d'Aragona come principessa vedova del Galles, circa 1503, olio su tavola di quercia, 29cm x 20,5cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna


Era il 1501, quando la "fanciulla" reale, la figlia di Ferdinando e Isabella di Spagna, appena sedicenne, giunse in Inghilterra per sposare il quindicenne Arthur, fratello di Enrico, morto un anno dopo il matrimonio, matrimonio che Caterina sempre negò essere stato consumato. 
La sua cospicua dote persuase il suocero, Enrico VII, a non lasciarla ripartire per la Spagna ma a rinnovare l'alleanza con il potente Ferdinando con un nuovo matrimonio: quello di Caterina, di sei anni maggiore, con l'allora "ragazzetto" Enrico, suo cognato!
Nessuna sorpresa se in quell' "intrigo" vi furono due opposti partiti a sostenere o ad avversare questa decisione: entrambi si ispiravano alla Bibbia e, alcuni gridavano allo scandalo: "Non è onesto che un uomo prenda la moglie del fratello .... essi saranno senza figli." (Lev. 20:21). Mentre altri dichiaravano con convinzione: “ Se due fratelli abitano insieme e uno di essi muore, e non hanno figli… l’altro ne prenda la moglie e la elegga a propria moglie.”.
Il matrimonio legale fu celebrato, anche se, data l’età di Enrico, venne differita la coabitazione.
Due anni dopo, Enrico chiese l’annullamento di questo matrimonio praticamente impostogli dal padre, ma gli interessi politici erano tali che egli stesso dovette convincersi a celebrarlo solennemente sei settimane dopo la sua incoronazione. 
 Caterina diede alla luce, uno dopo l’altro, una bambina di sette mesi e quattro figli maschi, che morirono dopo poco. Enrico già pensava al divorzio, quando nacque Maria, quella Maria che regnerà alla morte del padre per un tempo sufficiente a farla ricordare nella Storia come la Cattolica e la Sanguinaria, quella Maria che a soli due anni fu promessa sposa al Delfino di Francia!
E l’anno dopo ancora un quinto figlio maschio: nato morto! Ora Enrico cominciava a mettere in dubbio la validità del suo matrimonio con Caterina, a ritenere che il matrimonio con il fratello morto fosse stato realmente consumato, a temere persino che la morte dei figli e la mancanza dunque di una discendenza maschile fosse una punizione divina, per un matrimonio che contraddiceva ad un comandamento biblico! Oh, se la regina avesse partorito un figlio maschio! Egli avrebbe, come voto, allestito e guidato una Crociata contro i Turchi! Ma Caterina aveva ormai compiuto l’arco della sua fertilità e più vecchia di lui di sei anni, debole, deformata nel fisico e triste nell’anima per le tante dure prove subite, non costituiva più alcuna attrattiva nei confronti del suo giovane e vigoroso sposo.
Caterina, pur sfortunata e provata, fu una donna eccellente come cultura e raffinatezza. Ma raramente i mariti hanno trovato affascinante l’erudizione di una moglie! Amava Enrico e fu una buona sposa, accettò il comportamento infedele del re e lottò fino all’impossibile per salvare il suo matrimonio, opponendosi, finché poté, all’annullamento; ma l’amore più grande in lei fu sempre quello per la sua Spagna! Si considerava un inviato di Spagna presso l’Inghilterra, e di fatto per un certo tempo lo fu. Affermava che l’Inghilterra sarebbe sempre stata dalla parte di Ferdinando o di Carlo.
Nonostante i suoi appelli alla legge, nonostante il diniego da parte del Papa di annullare questo matrimonio, diniego che favorì l’istituzione della Chiesa Anglicana, Caterina fu costretta a lasciare la corte reale e, cosa ancor più dura, fu allontanata dall’unica figlia che ora veniva dichiarata illegittima. Vedere Maria, anche questa era ammalata, le fu sempre negato. La sofferenza di Caterina si accresceva quanto la sua ostinazione a non voler mai accettare la nuova condizione di vedova di Arthur. Continuò sempre a firmarsi: Caterina, la regina. Non smise mai di preoccuparsi della salute spirituale di Enrico e fino all’ultimo sperò in un suo ritorno a lei.
Visse nel castello di Kimbolton in condizioni molto semplici, quasi come in un convento. Si ammalò di tumore e, ormai vicina alla morte, scrisse la sua ultima lettera al re, raccomandandogli Maria, dichiarandogli il proprio perdono e pregandolo, come una sposa affettuosa, di aver cura della propria salute spirituale.
 La lettera si chiude con la frase: “Ed infine io vorrei, più che ogni altra cosa, posare ancora una volta i miei occhi su di voi!”.
Era il 7 gennaio 1536, quando, ricevuti i sacramenti, Caterina emise l’ultimo respiro. Non ricevette onori, né quella magnificenza promessa quale omaggio dovutole dal popolo inglese, la sua sepoltura avvenne, per volere del re, nella cattedrale di Peterborough a pochi chilometri dal castello che fu sua dimora negli ultimi anni.
Si sparse la voce che il re l’avesse fatta avvelenare, ma c’è chi afferma che Enrico sarebbe ricorso se mai alla mannaia! Morire intorno ai cinquanta anni non era ai tempi di Caterina un’eccezione: ai suoi tempi la vita si bruciava in tempi brevi!
Di lei, che viene per lo più ricordata come una donna pia e mite oltre che sfortunata e triste, si vuole invece onorare il profondo senso della dignità regale, quale si addice alla figlia della coppia di sovrani tra i più grandi d’Europa. 
E chi la ritenesse responsabile d’aver procurato lo scisma anglicano, dovrebbe considerare che proprio lei, Caterina, zia di Carlo V, con la sua fedeltà al matrimonio, alla fede cattolica, alla Spagna, ha lottato fino alla fine per salvare tutto ciò che amava.

© rosalia de vecchi


commento di ...
Il ritratto che traspare dalle tue interessanti analisi è quello di una donna affascinante e complessa, allevata fin dalla più tenera età ad un destino di regina, indomita, determinata a mantenere a tutti i costi il suo ruolo...
Se è vero che fu consapevole da sempre dell'importanza di un ruolo che la ragion di Stato le aveva imposto e che lottò con tenacia anche quando intrighi e complotti si intrecciarono alle sue spalle dopo la morte del primo marito, quanto sarà stata pesante la pressione di dover mettere al mondo un re dopo tre gravidanze infelici e tre figli maschi morti prematuramente? E quanto profonda l'umiliazione di non riuscirci e di assistere ai tentativi di annullamento del matrimonio da parte del suo secondo marito?

Quante umiliazioni avrà vissuto Caterina nell'intuire i suoi tradimenti ripetuti? E quanta mortificazione a seguito dell'attribuzione finale del titolo di "Principessa vedova" atta a suggellare il suo fallimento di regina dopo le nozze di Enrico con Anna Bolena? Quale tristezza avrà scandito i giorni del suo esilio forzato, di quella solitudine decorosa ma drammaticamente frustrante, punitiva? Quanto dolore avrà accompagnato una donna sconfitta e allontanata dalla sua unica figlia?

risposta al commento 
 è sempre così: nel " personaggio" storico c'è un uomo. C'è una donna. Troppo spesso la necessità di servire le richieste dettate dal processo storico calpesta e divora ogni sentimento, ogni pulsione, ogni ideale umano! Altrettanto spesso l'egoismo e la crudeltà non risparmiano i nobili! 
Qui, da una parte c'è una donna ripudiata e privata di ogni diritto di regalità e di  ogni diritto di madre, dall'altra una donna la cui nobiltà di nascita conferisce una dignità che sfida gli eventi e il tempo, che la fa tenace difenditrice dei valori cui è stata educata fin dall'infanzia: la patria, la fede e il matrimonio in quanto sacramento.
Il dolore non le impedisce di lottare fino all'ultimo respiro per riavere ciò che crede di non aver mai perduto definitivamente. 

Francesca di Bragranza


Francesca di Bragranza, in un ritratto di Franz Xaver Winterhalter, pittore tedesco che viaggiò per le città più prestigiose d’Europa, Parigi, Londra, Praga, Vienna, Mosca…, ambìto ritrattista dei regnanti; sono celebri, tra i numerosi ritratti da lui eseguiti, quelli di Luigi Filippo di Francia, della regina Vittoria, di Sissi e di Eugenia di Francia.


Francesca di Bragranza in un ritratto del pittore francese Ary Scheffer, uno dei più colti del XIX secolo, che volle dedicarsi alla realizzazione di una pittura che ottenesse una trasparenza della materia seppur sempre sensuale. Fu molto attratto dal mondo artistico di Shakespeare, Dante, Goethe; celebri di lui “Ombre di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta appaiono a Dante e Virgilio”.


Francesca di Bragranza in un ritratto del pittore tedesco Franz Xaver Winterhalter.


******Francisca Carolina Joana Carlota Leopoldina Romana Xavier de Paula Micaela Gabriela Rafaela Gonzaga de Bragança, nota come Francesca di Bragranza, donna di grande eleganza, bella e molto colta, amata ed ammirata dalla corte francese che la chiamò “La Belle Françoise”, infatti fu tra tutte le principesse la più popolare, nacque a Rio de Janeiro nell’agosto del 1824 dal’imperatore Pietro I del Brasile e dall’arciduchessa d’Austria, Maria Leopoldina d’Asburgo-Lorena, figlia dell’Imperatore del Sacro romano impero, Francesco II. Il nonno paterno era re Giovanni VI del Portogallo. Pertanto Francesca nacque infanta del Brasile e del Portogallo, ma il destino la fece principessa di Jonville, quale sposa dell’ammiraglio Francesco d'Orléans, figlio di quel Luigi Filippo d’Orleans divenuto “re dei Francesi”, - come volle egli stesso per sottolineare che doveva la corona alla volontà del popolo-, dopo le famose “Tre gloriose di Parigi” del luglio 1830.
La piccola Francesca, che, all’età di non ancora tre anni, perdette la madre e che poco tempo dopo dovette separarsi anche dal padre e dai fratelli che partirono con la seconda moglie di Pietro per Lisbona, ricevette un’educazione molto rigorosa ed accurata; possedeva tutte le qualità che si confanno ad una principessa, compreso il fascino della sua femminilità, quando il principe di Joinville la incontrò per la prima volta. Durante il viaggio verso l’isola di Sant’Elena, per recuperare le spoglie mortali di Napoleone da ricondurre in territorio francese, il figlio del re francese fece una sosta in Brasile e fu ricevuto da Pietro II. Pietro II, detto il Magnanimo, secondo ed ultimo imperatore del Brasile, era fratello di Francesca e fu così che i due principi si conobbero. Francesco d’Orléans, principe di Joinville, ritornato in Brasile, sposò Francesca nel maggio del 1843. Da questo matrimonio nacquero quattro figli, dei quali uno morì presto. La giovane principessa di Rio, trasferitasi alla corte francese, fu presto benvoluta da tutti e accolta con molto entusiasmo per le sue rare qualità. Le barricate del ’48 costrinsero gli Orléans all’abbandono del potere e della reggia e l’avvento della Repubblica li costrinse all’esilio. Ma Francesca, la cui personalità decisa e combattiva rivelava le sue migliori risorse nei momenti di maggiore crisi, fu tanto abile da negoziare a suo favore la fuga della propria famiglia. Dall’esilio si tenne costantemente in contatto per via epistolare col fratello Pietro, con il quale sempre ebbe un rapporto di grande affetto e molte affinità; lui la chiamava “Mana chica”. Le ristrettezze economiche connesse con la mutata situazione la indussero a vendere una parte della sua dote: le terre di Santa Caterina. Esse, che furono vendute alla Companhia Colonizadora Alemã, divennero l’attuale Joinville, prima Colonia Dona Francisca.
Francisca di Braganza morì a Parigi nel marzo 1898.

© rosalia de vecchi

venerdì 17 aprile 2015

Lucrezia Borgia



Nella Disputa di Santa Caterina d'Alessandria con i filosofi davanti all'Imperatore Massimino dell'Appartamento Borgia nel Palazzo Vaticano, Pinturicchio volle dare alla santa le sembianze di Lucrezia. Come si può vedere dall'immagine qui sopra, abbiamo una snella figura di donna dai lunghissimi capelli biondi, le cui mani dalle dita affusolate accompagnano con gesto garbato il discutere e le cui vesti eleganti e i raffinati accessori nulla hanno in comune con la semplicità e la castità dell'abbigliamnerto della santa, quale è ritratta in altri dipinti. Infatti, sebbene qualcuno metta in dubbio che si tratti di Lucrezia Borgia, questo suo ritratto corrisponde in pieno alle descrizioni letterarie: non straordinariamente bella, ma di discreta bellezza, dai capelli d'oro lunghissimi, che le pesavano fino al punto di provocarle delle emicranie, dall' "agile figura danzante"....."

Lei, che il cardinale spagnolo Rodrigo Borgia arcivescovo di Valencia, suo padre, destinato poi a divenire papa col nome di Alessandro VI, amò di più tra i suoi figli, mentre invece di essi ammirò e temette suo figlio Cesare, nacque a Subiaco il 18 aprile 1480. Sua madre fu Vannozza Cattanei, la mantovana contessa amante per molti anni di Rodrigo. La fanciulla Lucrezia fu educata in un convento. Passò poi alle cure di Adriana Mila, cugina del padre, e allacciò un rapporto di profonda amicizia, durato per tutta la sua vita, con sua nuora, Giulia Farnese, che alcuni dissero amante del padre. A parte l'illegitimità della sua nascita, Lucrezia, orgoglio del padre, poteva ritenersi possedere tutte le fortune e trascorse un' adolescenza gioiosa e felice.
Ma per le donne dei suoi tempi era naturale andare sposa molto giovane a chi scegliesse per loro il padre: Lucrezia, tredicenne, fu unita, per procura, in matrimonio al ventiseienne Giovanni Sforza, duca di Pesaro e nipote del potente duca di Milano Ludovico Sforza. La ragion di stato prevalse e Lucrezia fu condotta nella sua nuova casa di sposa a Pesaro, lontana dalle tenerezze degli affetti familiari e dall'eccitante e fastosa vita della corte romana. Ma non passò molto tempo che Lucrezia si ritrasferì a Roma, mentre Giovanni rimase a Pesaro. Alessandro VI chiese l'annullamento del matrimonio per impotenza dello sposo, il quale negò e lo accusò di rapporti incestuosi con la figlia. Lucrezia, frattanto, che da giovinetta spensierata era divenuta in brevissimo tempo, oggetto di un tal scandalo, si ritirò in convento. E, dopo varie pratiche e accertamenti, il matrimonio fu annullato, la dote restituita e si disse che l'annullamento fosse stato voluto da Alessandro per poter inviare Lucrezia a nozze più convenienti. Si disse anche che Alessandro volesse far eliminare Giovanni e che ne avesse ordinato l'uccisione, tanto che la stessa Lucrezia, essendone stata informata, abbia avvertito il marito e lo avesse aiutato a fuggire. Ma quale sia la verità, in quegli intricati anni, non ci stupisce che sia davvero difficile conoscerla, quando poi anche ai nostri tempi, esistono casi che sembrano destinati a rimanere insoluti per sempre! E chi, in questo braccio di ferro nell'ambito del potere, è più forte, vince e con lui forse talora anche la sua verità.
All'esperienza dolorosa del fallito matrimonio, per la giovane, seguì subito dopo un nuovo e più profondo dolore: la morte del fratello, il duca di Gandia, che si sospettò fosse stato fatto uccidere dagli Sforza per vendicarsi dell'onta subita, ma che si diceva anche fosse stato fatto uccidere da suo fratello Cesare per gelosia, perché amatissimo dal padre, e per avidità di potere.
Non sembra probabile, - secondo la versione dei più non ne esiste prova -, che Alessandro abbia ritenuto far rompere il vincolo matrimoniale tra Lucrezia e Giovanni per opportunistici scopi politici, ma sembra invece che il racconto di Lucrezia relativo ai suoi rapporti con il coniuge rispondesse a verità: quasi certamente le nozze non erano state consumate per la stessa troppo acerba età della sposa. Ad ogni modo, la figlia di un padre così potente non poteva restare senza un nuovo importante sposo e Alessandro di certo continuava a perseguire i suoi scopi politici, nel cui disegno la figlia doveva avere un ruolo di primaria importanza (amore paterno?.... sembra che questo fosse l'unico modo di concepirlo a quel tempo!) così Lucrezia sposò in seconde nozze: don Alfonso, duca di Bisceglie, nipote bastardo del re di Napoli, con il quale Alessandro voleva riconciliarsi. Questi era appena diciasettenne e sembra che Lucrezia se ne sia subito innamorata. Ora che lei ne aveva compiuti 18 poteva persino ritenersi esperta e idonea a fargli da guida. Ma, ahimé, il loro tenero giovanile amore aveva una scomodissima cornice: quella politica, che non lasciava scampo alle ripercussioni dei mutamenti di alleanze sugli affetti dei rampolli di famiglie potenti! Così, dopo che il fratello Cesare si fu recato in Francia per chiedere la mano di Carlotta d'Aragona, che era sotto la protezione del re Luigi XII, sperando, e con lui anche il padre AlessandroVI, di poter in questo modo assicurarsi la successione al regno di Napoli e dopo che Carlotta ebbe rifiutato questa offerta, i rapporti col Regno di Napoli s'incrinarono, mentre quelli con Luigi XII, acerrimo nemico del re di Napoli, s'intensificarono, poiché infatti Cesare sposò la francese nipote del re, Carlotta d'Albret, ricevendo anche il titolo di duca di Valentinois, da cui il soprannome di Duca Valentino. In cambio il re di Francia ricevette dal papa l'annullamento del suo precedente matrimonio e potè sposare la donna che amava. Da questa nuova alleanza derivò una sempre crescente presenza di emissari francesi alla corte romana e il giovane Alfonso, non riuscendo a tollerarla, fuggì a Napoli, lasciando Lucrezia nella disperazione. Per consolarla Alessandro la elesse reggente di Spoleto e qui la raggiunse Alfonso e, non molto tempo dopo i due giovani sposi furono ricondotti a Roma da Alessandro. Qui Lucrezia diede alla luce il piccolo Rodrigo. C'è chi dice che precedentemente da un rapporto sentimentale avuto durante le trattative dell'annullamento del suo precedente matrimonio, Lucrezia abbia avuto un figlio, ma l'attendibilità della fonte è ancora molto discussa.
Non valse, tuttavia, né la forza dell'amore che li aveva tenuti legati fino ad ora né la gioia di un figlio a rendere duraturo questo legame nuziale, poiché esso fu vinto e spezzato da un'altra forza: quella del disaccordo, dell'antipatia, del sospetto. In un clima di assenza di moralità e di sfrenatezza d'impulsi passionali, in cui tradimento e avidità di potere erano sovrani, non c'era posto per sentimenti d'affetto e di fedeltà e l'odio ebbe ragione dell'amore!
Così, nata e cresciuta fino a divenire abnorme, l'antipatia e con lei il sospetto e l'inimicizia tra i due cognati, la notte del 15 luglio del 1500 alcuni "bravi" assalirono Alfonso mentre usciva da San Pietro. Alfonso, malgrado le numerose ferite, riuscì a trascinarsi fino alla casa del cardinale di Santa Maria in Portico, dove, subito avvertita, convenne presto Lucrezia, che dicono sia dapprima svenuta a vederlo così ridotto, rinvenuta poi, lo assistette fino alla guarigione. Ma nell'animo di Alfonso restò la convinzione che il mandante della sua aggressione fosse Cesare ed un giorno che lo vide passeggiare non distante gli scoccò contro una freccia che, però, lo mancò. Questo suo gesto divenne il pretesto perché Cesare mandasse delle sue guardie a soffocarlo nei suoi appartamenti. Alessandro si lasciò convincere da Cesare e dopo un'affrettata sepoltura ad Alfonso, si mise a cercare di consolare l'inconsolabile Lucrezia. Da Nepi, dove si fu ritirata, questa firmava le sue lettere con "la infelicissima principessa" e però, nonostante il suo dolore, mantenne vivo per tutta la sua vita l'affetto fraterno nei confronti di Cesare, che di fatto non sembra abbia mai ritenuto responsabile della morte del suo amato sposo. Forse è perché Cesare, come suo padre Alessandro, l'amò con l'intensità degli Spagnoli, che s'insinuò il sospetto di rapporti incestuosi? Lucrezia sopportò pazientemente che uno scrivano napoletano la chiamasse "figlia, moglie e nuora del papa". La maggior parte degli studiosi che hanno approfondito la storia dell'epoca, afferma, senza ombra di dubbio, che queste furono calunnie belle e buone, calunnie crudeli, sulle quali peraltro si innestò la sua fama di donna fatale, di donna abile e senza scrupoli, degna componente della potente famiglia Borgia.
Qualche tempo dopo questi fatti dolorosi, Lucrezia sposò il suo terzo marito, Alfonso I, figlio del duca Ercole di Ferrara. Matrimonio indubbbiamente vantaggioso per Cesare, che si sentiva così più sicuro nelle sue conquiste, dato che avrebbe, in caso di eventuali attacchi alle spalle contro Bologna, avrebbe potuto contare su una copertura. Le iniziali esitazioni del duca Ercole e dello stesso Alfonso, cui era stata proposta la contessa di Angouleme, erano state presto fugate dalla cospicua dote di Lucrezia. Ma, nonostante la "cospicua dote", - ci si chiede - una delle più antiche famiglie regnanti d'Europa avrebbe accettato Lucrezia come moglie del futuro duca, se le voci sul suo conto fossero state corrispondenti al vero? Nè Ercole nè Alfonso conoscevano Lucrezia e, secondo la consuetudine dell'epoca, chiesero informazioni sul fisico ( aspetto e salute) e sulla moralità sull'educazione della giovane donna e così fu loro risposto dall'ambasciatore ferrarese: "....oltre a essere cortese, essa è pure modesta e discreta, e pratica devotamente la religione cristiana.... la sua bellezza è meravigliosa, ma più meravigliosa è la sua raffinatezza di maniere. Insomma il suo carattere è tale che non è possibile sospettare nulla di "sinistro" in lei....".
200 cavalleggeri armati di tutto punto e musici e buffoni furono la scorta organizzata da Cesare per la sorella che andava sposa ad Alfonso. E Alessandro, fiero ed orgoglioso, vi aggiunse 180 persone, tra cui 5 vescovi. 150 muli furono caricati del suo corredo, tra cui un vestito preziosissimo del valore di 15.000 ducati ed un cappello di 10.000 ducati e 200 corsetti dal prezzo ciascuno di 100 ducati. Lucrezia, dopo che ebbe salutata la madre, salì sul suo cavallino spagnolo tutto bardato con finimenti di cuoio ed oro, mentre il padre Alessandro, presentendo che non l'avrebbe mai più rivista, andava da una parte all'altra del corteo per assicurarsi che tutto fosse perfetto. Mai prima un simile corteo era stato visto partire da Roma o giungere a Ferrara, dove, dopo 27 giorni di viaggio, Lucrezia incontrò Ercole ed Alfonso che erano giunti accompagnati da un imponente corteo di nobili, professori universitari, 75 arcieri a cavallo, 80 fra trombettieri e pifferai, 14 carrozze di dame riccamente vestite appartenenti all'alta società.
Non apppena il corteo fu giunto al duomo, furono liberati i prigionieri politici, il popolo esultò e Alfonso fu felice di avere una sposa così affascinante e circondata da tanto splendore.
Qualcuno disse che questo matrimonio era stato accettato dai duchi di Ferrara per timore di Cesare, ma anche se ciò sia stato vero, Lucrezia, che da questo matrimonio mise alla luce sei figli, di cui due morirono ancor bambini e gli altri quattro divennero importanti esponenti della società rinascimentale, visse la sua vita di duchessa di Ferrara in modo conforme al suo ruolo e se ebbe all'inizio degli amanti, tra i quali pare lo stesso Pietro Bembo, ciò appartenne al costume di molte donne del suo rango, anche se non tutte, già ai suoi tempi.
Lucrezia si fece apprezzare soprattutto per il suo mecenatismo.
Negli ultimi anni della sua vita una profonda crisi religiosa la convinse a diventare terziaria francescana. Morì a Ferrara il 24 giugno, il giorno di San Giovannni, nel 1519.
Su di lei molti sono i racconti che circolano, come quello assai famoso dell'anello che immergeva nella cantarella, un potente veleno di sua invenzione, col quale somministrare morti atroci....
Ma tutti i documenti dell'epoca ne parlano come una donna " decorosissima".

© rosalia de vecchi

venerdì 10 aprile 2015

Ugo Crozio


"Io vidi prevalere in tutto il mondo cristiano una licenza, nel far guerra, di cui anche nazioni barbare si sarebbero vergognate, poiché si ricorre alle armi per ragioni futili o senza motivi, e quando le armi sono state una volta impugnate, ogni rispetto per le leggi divine e umane é stato gettato via, quasi gli uomini fossero da quel momento autorizzati a commettere ogni delitto, senza restrizioni.".
da : De iure bellis et pacis (1625).



Queste parole, che mai sembrano cessare di essere attuali, non vogliono tuttavia negare la difesa, legittima, delle vite e dei beni della società civile di uno Stato, quando, e se, essi sono realmente minacciati, ma vogliono evidenziare in modo assolutamente netto l'ingiustizia sia di una guerra di conquista o di una guerra combattuta per dare ad un popolo, che non lo richiede né lo vuole, un governo che si presume, a torto o a ragione, gli faccia bene, sia di una guerra preventiva, che, invece, alcuni scrittori giustificavano ed autorizzavano. Di fronte a questo tipo di guerre vale, secondo Grozio, che il singolo si opponga al suo parteciparvi.
E, qualora le situazioni siano tali da non poter evitare il conflitto, è doveroso condurlo nel rispetto dei diritti fondamentali dei popoli.
Giurista, filosofo e scrittore olandese, (1583-1645), Ugo Crozio è ritenuto il "padre del diritto naturale". Il suo De iure bellis et pacis, trattazione dei molteplici e differenti aspetti della guerra, contiene le basi del diritto internazionale, che, per lui, è prevalentemente connesso col diritto naturale.
In questo suo essere considerato "padre del diritto naturale" Crozio va accostato al suo predecessore in materia: il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546), il quale, riallacciandosi a Sant'Agostino e a San Tommaso d'Aquino, trattò della cosiddetta "guerra giusta" e del rispetto di valori etico-naturali, in base ai quali, peraltro, una guerra non deve assolutamente provocare danni maggiori di quelli a cui intende portare rimedio, essendo egli anche quel primo teologo che, insieme a Bartolomeo De La Casas, affrontò la questione della conquista spagnola, ne denunciò i gravi aspetti di selvagggia barbarie e contestò i principi del Trattato di Tordesillas, sostenendo con vigore sia l'illegittimità del mandato papale di evangelizzazione, sia il concetto aristotelico della "naturale schiavitù".
Se Machiavelli aveva sostenuto che la forza di uno Stato va mantenuta anche secondo mezzi non corrispondenti alle leggi della morale collettiva, per cui un Principe, pur di garantire l'integrità e la potenza del proprio Stato, può e deve ricorrere alla violenza, alla menzogna, al tradimento, all'assassinio, Crozio, invece, è risoluto nel sostenere che se pure i governi possono non rispettare, in talune circostanze, la legge "positiva" formulata e decisa dagli uomini di un determinato luogo e di una determinata epoca, sono obbligati invece ad obbedire allo "ius naturale", ritenendo per diritto naturale "il dettato della giusta ragione che rivela l'immoralità o la necessità morale di qualsiasi azione....".
Di diritto naturale avevano trattato antichi filosofi quali Ippia di Elide, il quale affermava che "il simile è per natura parente del simile, mentre la legge, essendo tiranna degli uomini, costringe a fare molte cose contro natura", lo stesso Aristotele e poi, a Roma, Gaio e Ulpiano, che vollero occuparsi anche del cosiddetto "ius gentium", considerare cioè anche il diritto relativo ai popoli non compresi nella cittadinanaza romana, cosa che maturò, nelle riflessioni di Ulpiano, la constatazione che la condizione di schiavo viene vista tale dalle leggi fatte dagli uomini e non corrisponde alla condizione naturale dell'uomo. E anche gli Scolastici e San Tommaso si occuparono di diritto naturale e San Tommaso, in particolare, poneva l'accento sul fatto che è un diritto naturale dell'uomo rivendicare la propria libertà.
Fu tuttavia Ugo Crozio che approdò alla formulazione completa del giusnaturalismo, ossia alla constatazione, e alla conseguente affermazione, dell'esistenza di un diritto naturale conoscibile da ogni uomo.
Connettendo lo "ius naturae" con lo "ius gentium" egli costruì la prima formulazione moderna di una legge internazionale.
Supponendo che una guerra sia inevitabile, allora i governi dovrebbero condurla nel rispetto di alcuni diritti fondamentali, quali la previa dichiarazione di guerra, il rispetto, nelle conquiste, dei bambini, delle donne e di tutti i non combattenti, la non uccisione dei prigionieri....Ed anche se sorgono domande come: "se lo "ius naturae" è "un dettato della giusta ragione", chi stabilisce qual è la giusta ragione?" o come: " una volta definiti i principi del diritto internazionale chi ne sarà garante?", è indubbio che l'opera di Grozio ha il grande merito di mettere i primi limiti all' "omicidio autorizzato" perpetrato nelle guerre fino ad allora combattute ed, anche se dalla stessa Guerra dei Trent'anni a tutte le altre guerre che ancor oggi si consumano nel mondo il diritto internazionale viene troppo spesso gravemente e drammaticamente calpestato, resta il fatto che quest'uomo segnò un Rubicone, un momento di riflessione che, nonostante la violenza del mondo, diede inizio ad un processo evolutivo ancora in atto.
Grozio elaborò e formulò anche la teoria del "contratto sociale" e ipotizzò l'internazionalità e la libertà dei mari, cosa che contribuì all'abbattimento di alcuni monopoli commerciali.
Queste sue idee innovative, se convinsero Richelieu, che aveva deciso d'intervenire nella Guerra dei Trent'anni, a revocargli la pensione, costringendolo a ritirarsi ad Amburgo, ispirarono invece alla regina Cristina l'idea di invitarlo a restare alla sua corte come studioso e a fornirgli una buona pensione. Egli espresse invece il desiderio di ritornare in Germania, ma durante il viaggio, la nave s'incagliò e, avendo egli subito dei danni alla salute per lo schianto, morì poco dopo a Dresda.
Nel 1886 la città di Delft, sua città natale, gli innalzò una statua.


© rosalia de vecchi