lunedì 26 ottobre 2015

la grotta di Fingal


Staffa è una piccola isola tra le più romantiche e spettacolari delle Isole Ebridi interne, ad ovest della Scozia. 
Disabitata, ma ricca di fauna marina, ospita colonie di uccelli, tra i quali spiccano le Pulcinelle marine. 
Meta di un intenso turismo, fa parte della riserva naturale del National Trust for Scotland. 
Prende il nome dalla sua particolare struttura geologica, costituita da migliaia di colonne esagonali di basalto. La parola “staffa”, secondo la sua origine scandinava, significa infatti “pilastro”. Le pareti di lava solidificata a strapiombo si aprono alla vista del visitatore come un colonnato di maestose colonne di basalto, in cui l’erosione del mare e dei venti ha scolpito grotte di straordinaria bellezza.



Spicca regina tra queste la famosa grotta di Fingal, che ispirò musicisti e poeti. E il cui ingresso, dall'interno, incornicia la sacra isola di Iona di fronte! 





I Vichinghi la chiamavano “Grotta delle colonne”; il nome gaelico, Uamh-Binn, significa “ grotta di melodia”. Non a torto infatti Mendelssohn, che la visitò nel 1829, si ispirò ai suoni prodotti da queste straordinarie canne d’organo poligonali di basalto, ascoltati al suo interno, per comporre, nel 1830, "Die Fingalshöhle", la graziosa ouverture "Le Ebridi", la stessa che rese famosa la grotta, sebbene essa fosse già nota al mondo da quando il naturalista Sir Joseph Banks l’ebbe scoperta nel 1772. La musica di Mendelssohn esprime il fascino della forza del mare, l’energia del moto alterno delle onde, lo stupore per il sublime spettacolo della natura offerto dalla grotta. Il movimento del mare ritmicamente cadenzato viene evocato mediante la ripetizione del tema iniziale, affidato in particolare agli strumenti ad arco. Ed un secondo tema affidato soprattutto ai violoncelli a agli strumenti a fiato evoca la forza impetuosa del mare e il fascino dello spettacolo della natura di questo luogo straordinario, in cui l’eco misteriosa delle onde del mare, che canta come suono di canne d’organo, lo slancio geometrico verso l’alto delle masse di lava raffreddata che formano le pareti della grotta e le colonne naturali appena al di sopra dell’alta marea, allineate all’ingresso come contrafforti di un portale gotico, contribuiscono a conferire alla grotta l’atmosfera di una cattedrale. 
A questa affascinante grotta s'ispirò anche Johannes Brahms, che, negli anni 1859/60, compose il Canto dalla Grotta di Fingal, che fa parte dei “Quattro canti” per coro femminile, due corni e arpa, nell'op.17 n.4.
I Pink Floyd hanno scritto il brano “Fingal's Cave destinato al film Zabriskie Point, ma poi non inserito nella colonna sonora. 
E il compositore e chitarrista romantico Johann Kaspar Mertz, diede il titolo di “La grotta di Fingal” ad uno dei due brani composti per chitarra sola nell'op.13.

Anche il pittore inglese Turner ne rimase affascinato e volle dipingerla nel 1832.




Queste colonne laviche prismatiche a scalini a sezione pentagonale o esagonale che, qui, nella Grotta di Fingal assumono tratti di straordinaria bellezza, hanno attratto, tra i tanti turisti,  varie personalità, uomini d’eccezione.

Jules Verne, William Wordsworth, John Keats, i quali si recarono nell’isola richiamati dal fascino della grotta...

Il romanziere Walter Scott ha descritto la grotta come una delle più straordinarie località da lui mai viste, che supera ogni descrizione di cui si senta parlare …. Parla delle sue colonne basaltiche alte come a dover sostenere il tetto di una cattedrale, delle sue profondità rischiarate da una pavimentazione simile a marmo di colore acceso, del battito costante del mare profondo sulle rocce di basalto.

Il drammaturgo svedese August Strindberg nel suo famoso dramma “ A dream play” colloca alcune scene in un luogo chiamato “ Grotta di Fingal”.


Secondo i geologi i basalti esagonali si sono formati 60 milioni di anni fa a causa di una potente esplosione sotterranea, nello stesso periodo in cui si sono formati anche quelli della Grotta dei Giganti ( Giant's Causeway) in Irlanda e di Acitrezza in Sicilia.

La grotta porta il nome di Fingal, ossia bianco straniero, eroe dell'omonimo poema di James Macpherson del Ciclo di Ossian. 
Ma nella mitologia irlandese Fingal è colui che la leggenda dice aver costruito un selciato tra Irlanda e Scozia.  



Il poeta scozzese James Macpherson, noto come il traduttore dei canti di Ossian, nel 1761 annunciava la scoperta di un'epopea di Fionn legato alla mitologia irlandese e scritta da Ossian, il figlio di Fingal,  e pubblicava Fingal, un antico poema in sei libri, e poesie , tutti attribuiti appunto ad Ossian.


mercoledì 29 luglio 2015

mercoledì 10 giugno 2015

Maria Antonietta dalla "grazia" alla tragedia. La “donna” Maria Antonietta alla luce di una nuova documentazione.




Maria Antonietta dalla "grazia" alla tragedia. La “donna” Maria Antonietta alla luce di una nuova documentazione.



Raramente un destino ha presentato così forti contrasti come quello di Maria Antonietta. La giovane Dauphine Maria Antonietta fin dall'inizio si dimostrò un'artista della seduzione. Divenuta regina, divenne impopolare e a mala pena riuscì a smorzare la sua impopolarità; ma ci volle la Rivoluzione con le sue dure prove finali, affrontate con grande dignità, perché questa donna, questa sposa e questa madre si mostrasse degna di ammirazione qual di fatto era.
Nel mese di Marzo del 1770, quando "Madame la Dauphine" apparve ai Francesi, fu un colpo di fulmine reciproco. L'adolescente dal viso candido, aureolato di biondi capelli, sorrideva al popolo che vedeva in lei la regina che sognava. Ella giungeva nel regno più bello d'Europa, sicura dell'avvenire radioso che il suo matrimonio con l'erede al trono le faceva presagire. Sua madre, l'imperatrice d'Austria, Maria Teresa, l'aveva scelta per questo destino allo scopo di rinsaldare l'alleanza con la Francia, alleanza che riteneva il cavallo di battaglia della sua politica.
Maria Teresa aveva visto partire la figlia non senza qualche inquietudine. Certo, la formazione morale di sua figlia era perfetta; ella conosceva le consuetudini auliche, danzava e suonava il clavicembalo con grazia, parlava il francese e il linguaggio delle corti, ma non pensava che a divertirsi e non aveva mai manifestato il benché minimo interesse per lo studio. L'abate di Vermont, chiamato da Luigi XV per colmare i vuoti nell'educazione culturale di Madame Duphine, riconosceva in lei un giusto intendimento, tuttavia dichiarava che Maria Antonietta, sebbene ascoltasse volentieri i contenuti dei suoi insegnamenti, si rifiutava di approfondirli. L'abate, infatti, cadde presto nelle maglie dello charme dell'arciduchessa, che, nonostante la sua giovanissima età, esercitava già una vera seduzione. "Dio vi ha colmata di tanta grazia, di tanta dolcezza e docilità che tutti vi amano: è un dono di Dio, bisogna conservarlo, non vantarsene ma conservarlo gelosamente per la felicità vostra e di tutti quelli che vi appartengono."- le scriveva sua madre il primo novembre 1770, alla vigilia dei suoi 14 anni. Questo indicibile charme Maria Antonietta lo conserverà fino alla fine dei suoi giorni e, attraverso i secoli, lo esercita ancora oggi.

La nuova famiglia mise la sua sensibilità a dura prova. Luigi XV le dimostrava gentilezza ma il suo sposo la schivava. Il Delfino non aveva confidenza con le donne e tanto meno con questa giovane straniera che i suoi genitori gli avevano imposto come moglie. Le figlie del re, acide e maldicenti guardavano la giovane austriaca come un'intrusa, fingevano di esserle affezionate, di fatto non avevano alcuna indulgenza nei suoi confronti. E la Delfina ancora bambina, come diceva il re, si trovava priva di affetto ed aveva subito compreso che ormai per lei sarebbe stato così anche in avvenire.
Maria Antonietta coltivava la nostalgia per la sua Vienna e provava un attaccamento crescente nei confronti della propria famiglia. Aspettava con ansia le lettere della madre piene di consigli e di interrogatori. L'anziana sovrana tentava di consolidare l'alleanza politica con la Francia tramite la figlia, senza chiedersi nemmeno se la giovane fosse capace di essere ciò che lei avrebbe voluto, ossia un agente al servizio degli Asburgo. Per questo l'imperatrice le mise a fianco il suo ambasciatore, il conte Mercy d'Argenteau, con il quale confidarsi, al quale chiedere come comportarsi nelle varie circostanze e con ciascun membro della famiglia reale.
Frustrata nella sua vita affettiva e amorosa Maria Antonietta non provava rispetto per il re a causa della sua relazione con Mme Du Barry, una donna di basse origini alla quale lei non volle mai rivolgere la parola; avrebbe desiderato tentare di conquistare il suo sposo, ma pazienza e rassegnazione non essendole connaturate, si rifugiò invece nell'amicizia della principessa di Lamballe e si ribellò come un bambino rifiutato che lotta per riavere il suo posto. Fu una ribellione contro le costrizioni dell'etichetta, un marcato disprezzo della condizione di agiata donna di corte, un desiderio di cavalcare un cavallo in testa al corteo invece che un asino a fianco del re come una rispettabile dama del suo seguito. Maria Antonietta era avida di distrazioni. Non erano le lezioni di canto o di clavicembalo che la tiravano fuori dalla sua malinconia. Bisognava che il re le permettesse di seguire la caccia a cavallo e soprattutto di recarsi a Parigi senza cerimoniale, affinché lei ritrovasse la gioia di vivere. Maria Antonietta a Parigi scoprì un mondo sconosciuto che le donò l'illusione di cominciare una nuova vita. Rientrò a Versailles entusiasta delle sue scoperte e dell'amore

dei Parigini che le avevano dimostrato un grande fervore. Nella capitale Maria Antonietta era diventata una donna desiderata e questo l'aveva fatta sentire appagata: l'amore del popolo al posto dell'amore del principe, ecco la sua rivincita!

Breve luna di miele! Quando, il 10 maggio 1774, moriva Luigi XV, lei non aveva ancora compiuto 19 anni e il suo sposo aveva appena vent'anni. Il giovanissimo re di Francia sogna la felicità e il benessere dei suoi sudditi e l' altrettanto giovane regina si dichiarava pronta a sostenere il marito di cui diceva che era un "pauvre homme"! Ma, passata l'emozione dei primi momenti, ora lei si sentiva investita di una vasta onda di libertà, una libertà che non aveva mai conosciuto prima e della quale però non supponeva i pericoli connessi. In Francia il ruolo della regina non era ben definito. Suo dovere consisteva nel dare legittimi eredi al trono e la sua condotta doveva essere al di sopra di ogni sospetto.

Maria Antonietta, invece, non forniva un'immagine perfetta della sposa di un monarca! Apriva di rado la propria camera allo sposo ( forse adduceva qualche scusa per questo) e viveva come in una perpetua festa. A Versailles, presso la corte di Luigi XIV e di Luigi XV, gli astri splendenti erano state le amanti reali. I ruoli si trovavano ormai invertiti. Privo di fascino, Luigi XVI, che non ebbe mai una favorita, non brillava né per l'aspetto fisico né per lo spirito. In tutto lo splendore della giovinezza e della sua bellezza la regina rivendica per sè e per la sua corte un ruolo di primo piano, cosa che il re le accorda volentieri.

La regina voleva una corte giovane, alla moda, dove ci si divertisse. Si rifiutava di vivere, come le regine che l'avevano preceduta, in una condizione di continua rappresentanza ma voleva vivere la propria vita privata in modo riservato. Durante la giornata si ritirava nei propri appartamenti, riceveva i suoi amici al suo castello di Trianon, partiva ogni tanto per andare a trovare il suo beau-frère, il Conte di Artois , si attardava per delle intere notti ai balli all'Operà senza il re. cercava di stordirsi per vincere il vuoto del suo cuore e trascorreva il minor tempo possibile con suo marito, che chiudeva gli occhi su questa sconcertante iperattività. Alcuni uomini facevano battere il cuore della giovane regina più fortemente d'altri, ma lei sapeva che non aveva il diritto d'amare e la sua folle amicizia per Mme de Polignac faceva molto parlare.
Ben presto Maria Antonietta passò per una regina troppo volubile e stravagante. Come passa i suoi giorni nel castello di Trianon , dove il re non è neppure invitato? E che pensare delle sue notti a Parigi? Da Versailles partono i pettegolezzi che diventano presto canzoni e plamphet che denunciano la cattiva condotta della sposa del re, il quale viene ormai giudicato come un uomo tradito, impotente ed incapace di governare la propria donna e di conseguenza incapace di governare anche la Francia. Quando Maria Antonietta mise al mondo il suo primo figlio, nel 1778, si vociferava che non fosse figlio di Luigi XIV. Lo stesso accadde quando nacquero gli altri tre figli. L'idillio tra la regina e il popolo francese era ormai finito da tempo. Ma, nonostannte la sua insostenibile leggerezza, Maria Antonietta faceva dire al fratello più grande, Giuseppe II, che non aveva mai peccato d'indulgenza, durante un lungo soggiorno a Versailles: "E' una testa al vento, che passa le sue giornate correndo da uno svago all'altro, dissipando questo e quello. Non pensa ad altro che a divertirsi. Non sente niente per il re. E' un'amabile ed onesta donna, un pò giovane, poco riflessiva, ma che ha un fondo di onestà e di virtù.".
L'irruzione del conte di Fersen nella vita, monotona per le sue futilità, di Maria Antonietta fu un avvenimento che le capovolse tutto. La regina rispose all'appello del suo cuore e il misterioso legame che ne seguì l'appagò più che le sue maternità. Nel 1785, prese coscienza della propria impopolarità. Uscì dalla sua crisalide. Non era più la principessa spensierata, era ora una donna ferita, sostenuta moralmente da un uomo che l'amava ma preoccupata per i suoi figli.

traduzione di rosalia de vecchi da un articolo di Le Figarò scritto dalla storica Evelyne Lever, autrice di "C'était Marie-Antoinette" (Fayard, 2006) e di ". Journal d'une reine" (Tallandier, 2008)

prima parte



Enrico il navigatore





Nel 15° secolo comincia la grande avventura di raggiungere le Indie per mare, con alla testa Portogallo e Spagna. Il Portogallo, all’inizio del 1400, era una regione povera di contadini e pescatori, ma resistette ai tentativi di dominio da parte dei Castigliani e preservò la sua indipendenza. Si affermò come potenza marittima sotto il re Giovanni I, poi soprattutto per l’incremento dato alla navigazione e alle esplorazioni geografiche da suo figlio: Enrico il Navigatore. Personalità d’eccezione, egli fu un uomo dalle singolari doti, dal carattere mite ma di volontà ferrea, di grande apertura culturale da saper apprezzare il consiglio e la collaborazione di studiosi di ogni razza e religione, dagli europei cristiani agli arabi musulmani e agli ebrei e nel contempo incline alla riservatezza, versatile e serissimo ricercatore a tal punto da essere considerato non a torto un anticipatore della scienza sperimentale moderna eppure assai incline alla meditazione e ad un certo ascetismo ed esoterismo.
Juan Fernandez, infante di Portogallo, duca di Viseu, principe di Sagres, nato ad Oporto il 4 marzo 1394, fu l’uomo che diede inizio, con la fondazione della scuola di navigazione di Sagres, nell’Algarve in Portogallo e precisamente nel punto più a Sud del Portogallo, Cabo de Sào Vicente, l’ultima punta occidentale d’Europa protesa verso l’Atlantico, all’esplorazione metodica e perseverante della Terra. Fu uomo di grande modestia e semplicità, ma coltissimo e capace tanto da essere stato l’anima di tutti i viaggi esplorativi da lui stesso organizzati. Eppure, il Navigatore, dicono, non ha mai solcato il mare aperto come fecero tutti quei “suoi” navigatori che, salpati da Sagres, affrontarono l’ignoto e scoprirono nuove terre.
Erano quelli tempi in cui varie e complesse cause spingevano gli Stati Atlantici a raggiungere le Indie per via mare: il monopolio dei commerci con l’est da parte di Venezia, l’aumento della circolazione delle monete che richiedeva di poter aver a disposizione enormi quantità d’oro, il sempre più diffuso consumo di spezie e di aromi, prodotti per avere i quali si era finito col pagare ingenti somme, l’essersi generalizzato l’uso dell’indaco come materia colorante, l’avanzata dei Turchi che fece subire un duro arresto dei commerci in Crimea di Genova….
Il principe Enrico pensava di circumnavigare l’Africa per trovare forse un passaggio tra l’Oceano Atlantico ed l’Indiano, una nuova via per commerciare con l‘India. A quei tempi si pensava che questa via potesse essere relativamente breve poiché si credeva che l’Africa fosse più larga che lunga e che, subito dopo la zona desertica, l’Africa piegasse verso Oriente. Il giovane Enrico decise dunque di promuovere la cosiddetta “via occidentale”, cioè l’esplorazione dell’Africa partendo dal Senegal, per giungere alle sorgenti del Nilo e all’Abissinia “cristiana” così da aprire sull’acqua una “via africana” dall’Atlantico al Mar Rosso e quindi all’India.
Oltre alla convinzione che l’Africa si estendesse non oltre il golfo di Guinea, era anche diffusa la credenza che nel cuore dell’Africa esistesse un regno cristiano, un regno peraltro ricco di pietre preziose e di legni pregiati,nel quale le acque del Senegal si sarebbero congiunte con quelle del Nilo e non è da escludere che il principe Enrico fosse a conoscenza di tali notizie. Gli Arabi poi, che portavano sale ed altro nelle coste della Guinea, raccontavano delle grandi ricchezze di quegli antichi regni come il Ghana, dove dalle gualdrappe dei cavalli ai cappelli dei figli del re ogni cosa era intessuta d’oro.
Perciò il Principe Enrico, nel 1420, si trasferì a Sagres, dove esisteva un centro di studi e di informazioni per la conoscenza e l’iniziativa nautica. Vi fece convenire uomini esperti nelle scienze matematiche, astronomi, cartografi– ebrei e maomettani-sapienti conoscitori di antiche carte nautiche e di fenomeni metereologici; qui insieme con loro per quaranta’anni accolse e studiò relazioni di marinai e viaggiatori, da qui inviò sui mari fragili vascelli (le caravelas) rinforzati con vele e remi e con equipaggi che andavano dai trenta ai sessanta uomini, organizzò imprese con la consapevolezza tipica di un uomo del Rinascimento qual era e con metodo già da scienza sperimentale quale più tardi fu introdotta da Galileo, dando così inizio alla “cultura delle esplorazioni”.

Aveva intuito che i tempi erano ormai favorevoli alla grandi imprese di esplorazione e contribuì, in breve, al progresso delle scienze nautiche, ma vi era un grande problema da affrontare ancora: il regime dei venti alisei, che soffiando da nord-est nel nostro emisfero e da sud-est nell’emisfero opposto, tendevano a portare le navi al largo. Furono necessari anni di studi e numerosi tentativi sempre falliti per apprendere il giusto governo delle vele e del timone e solo nel 1434 due navi portoghesi riuscirono a doppiare quel Capo Bajador che sembrava insuperabile. Vinta questa difficoltà, tutto poté procedere più celermente ed uno alla volta navigatori portoghesi raggiunsero Capo Bianco, la costa del Senegal, superarono Capo Verde e procedettero all’esplorazione delle isole ommonime, esplorazione cui parteciparono il veneziano Alvise di Ca da Mosto e il genovese Antoniotto Usodimare, nel 1456. Alvise scrisse un’interessante relazione di questo viaggio. Poi si spinsero fino alla Sierra Leone.
Enrico, l’“anima” delle spedizioni, le preparava scrupolosamente. In gioventù, mentre ancora in Portogallo si combatteva contro i Mori, egli aveva dimostrato tanto valore ed accortezza che ricevette proposte di assumere il comando di eserciti stranieri. Ma rifiutò con fermezza, poiché già si sentiva chiamato ad operare per destino in altro campo.
Osservando i tratti del suo volto, dal suo sguardo e dal suo viso magro, con il naso sottile e i piccoli baffi, vediamo spirare un’austera serietà. Pur non essendo di fatto un navigatore, come si è detto, ciò che lo attrasse sempre fu il mare misterioso con le sue mille meraviglie e i suoi mille problemi da risolvere,All’estremo angolo del mondo allora conosciuto, nella piccola fortezza di Sagres, egli si costruì un castello sopra uno scoglio assai sporgente nel mare e lì vicino, egli, che fu un uomo molto religioso, quasi ascetico, si fece erigere una chiesa e una serie di padiglioni per la scienza, cui volle dedicarsi insieme a quegli uomini che come lui erano animati dalle stesse intenzioni e mossi dalla medesima passione. Qui tutte le leggi del mare furono studiate; qui, anche se non mancavano i mezzi finanziari, perché il Principe Enrico era anche uno dei più importanti Gran maestri dell’Ordine di Cristo, nome assunto in Portogallo dai Templari che vi si erano “rifugiati” dopo la soppressione dell’ordine voluta da Filippo il Bello, i problemi non mancarono come ad esempio quello di trovare i marinai, che temevano l’”onda nera”, che la tradizione diceva dominasse i mari del Sud. Per vent’anni Enrico dovette inoltre rinunciare ai viaggi d’alto mare ed accontentarsi di costeggiare le terre d’Africa ed ogni rientro da un viaggio 
esplorativo era seguito da un vagliare scientificamente le notizie e preparare meglio il successivo. Scienziati da ogni parte , i migliori, vennero a lavorare con lui.
Il suo motto era: “Talent de bien faire”. Cambiava sempre gli uomini che guidavano le esplorazioni, forse perché non voleva che una persona sola finisse col diventare tanto potente da poter essere poi pericolosa.
E così, quando nel 1445, fu raggiunto Capo Verde, l’Europa vide finalmente la meravigliosa vita di quelle verdi e lussureggianti coste. Si cominciò a conoscere le popolazioni la lingua i costumi…..
Enrico stesso poté verificare che in Africa vi era una cultura che aveva origini molto antiche e fu il primo africanista nel senso moderno del termine.
Dalla sua appartenenza all’Ordine dei Templari indubbiamente egli dovette derivare conoscenze importanti, anche di antiche e ormai sconosciute carte nautiche…. ed altro.
Enrico il Navigatore morì nel 1460, il 13 novembre, pienamente soddisfatto della sua opera. Questo principe nel quale i Portoghesi vedono il più schietto rappresentante del loro popolo, perché dotato dei loro tratti caratteristici quali la nostalgia dell’ignoto e il desiderio d’avventura, è giudicato medievale nell’’anima per la sua fede cristiana e la fiducia nella leggenda ma rinascimentale per lo spirito scientifico con cui raccoglie notizie e le coordina entro un disegno preciso.
Nove anni dopo la sua morte, le lunghe e graduali preparazioni della circumnavigazione dell’Africa, uno dei suoi navigatori, Ferdinando Poo si accorse che la costa africana riprendeva la sua direzione verso sud e nel 1486 Bartolomeo Diaz oltrepassò l’Equatore e giunse all’estrema punta meridionale dell’’Africa: Il Capo Tormentoso, poi per volere dello stesso re portoghese Giovanni II chiamato Capo di Buona Speranza e da lì si risalì poi lungo la costa del Pacifico. La circumnavigazione dell’Africa fu compiuta.

20 /04 / 10 rosalia de vecchi





Monumento alle scoperte marittime, con Enrico in primo piano, a Lisbona, sulla sponda del fiume Tago

Råbjerg Mile


Råbjerg Mile



"C'è un paese incantevole
coperto di grandi faggi,
presso le acque del Baltico,
colline ondulate, valli verdeggianti,
che si chiama Danimarca"


dall'inno nazionale danese





***
E' un deserto di sabbia che si trova all'estremità settentrionale dello Jutland, protetto come riserva naturale.
E' una duna di 2 chilometri quadrati in un luogo proteso nel Mar del Nord: sabbia cha appare da un paesaggio verde, da una brughiera orlata di boschi e circondata dal mare. Ci si arriva soltanto a piedi, attraverso i sentieri della riserva.
Il vento crea le dune, le modella. Esse si spostano di alcune decine di metri ogni anno. Il fenomeno delle "dune mobili" è dovuto all'erosione della costa calcarea.

Questo breve tratto di deserto si colora d'azzurro all'alba e di rosa al tramonto.



martedì 9 giugno 2015

i presupposti dell'inquisizione.



l'inquisizione di Cristiano Banti

Se consideriamo l’Antico Testamento, ad un dato momento, vi troviamo scritto che gli eretici, coloro che “erano andati dietro agli dei stranieri “, se la loro adesione all’eresia fosse stata comprovata da tre testimoni degni di fede ( escluse ovviamente le donne che per la legge ebraica antica non potevano testimoniare!) dovevano essere condotti fuori le mura della città e “fatti oggetto di sassate fino al loro spegnersi definitivo”. ( Deut.XVII, 25).
Analogamente, se prendiamo il Vangelo di S. Giovanni, (XV, 6), possiamo, anche qui, leggere: “Chi non rimane in me è gettato via come il tralcio che inaridisce, e vien poi raccolto e gettato ad ardere nel fuoco”.
Vale, a questo punto, precisare il carattere di immagine delle parole di Giovanni ! Che, qualora fossero, come taluni fanno e troppi hanno fatto, da intendere alla lettera, ciò infatti vanificherebbe tutta la novità del messaggio di Cristo: l’uguaglianza e il perdono! Se mai, infatti, andrebbero interpretate in connessione con ben altre visioni riguardanti l’evoluzione dell’uomo e i suoi rapporti col cosmo! Come il tralcio reciso dall’albero dopo poco inaridisce, così l’uomo che disconosce la sua origine spirituale e se ne separa finisce con l’inaridirsi e col consumare la propria natura originaria. L’immagine del rogo , ad esempio, è consueta nelle fiabe: nel rogo la strega si consuma e perisce. Il fuoco brucia il male. E la combustione separa le sostanze e trasforma gli elementi. … Ma questo tipo d’indagine, ora qui, ci condurrebbe lontano dall’argomento intrapreso. …
Nel mondo antico, e purtroppo dolorosamente ancor oggi, l’άσέβεια (asebeia), ossia l’empietà dell’eresia, come fu intesa e nominata dai Greci, era punita con la morte; la legislazione greca antica, infatti, contemplava la pena di morte per chi non rendesse omaggio alle divinità del proprio Pantheon. Pensiamo, ad esempio, a Socrate costretto a bere la cicuta! Non dissimile fu la situazione nella Roma imperiale nei confronti dei Cristiani! Ed è assai curioso che proprio una Roma che sotto Augusto aveva eretto il Pantheon, ora diveniva “solerte custode” delle proprie tradizioni religiose! Ora che un profeta nuovo era venuto a introdurre nella società forti elementi di diversità che avrebbero potuto scardinare l’ordine precostituito!
Nella Roma dei Cesari gli dei erano alleati dello Stato: chi non riconosceva quegli dei diveniva reo di tradimento e doveva essere punito con la morte.
E questo, che era considerato un reato assai grave forse proprio per la sua pericolosità, veniva perseguito con molta attenzione: nessuno accusava qualcuno reo di simile colpa? Allora si provvedeva subito ad “inchiodare” ( e qui scegliamo intenzionalmente l’uso d’un termine ambivalente dal forte sapore analogico!) il “traditore”, il “diverso”, colui che “osava” coltivare un’idea propria del Divino! Come? Facendo un’ “inquisizio”, ossia un’inchiesta su casi sospetti.
Anche qui, la Chiesa di Roma non esitò a far sua una pratica giuridica già cara ai Romani. E già alle soglie del Medioevo dava la forma di questa procedura romana a ciò che chiamò appunto Inquisizione. L’anno 313, che riconobbe libertà di culto ai Cristiani sembrò forse a qualcuno degli allora viventi un anno di svolta: si riconosceva libertà di culto ad un nuovo credo! Ma poi, non molto dopo, nel 380, venne l’Editto di Tessalonica: l’imperatore Teodosio proclama il Cristianesimo religione di Stato. Nulla dunque è cambiato. Solo un sovvertimento di posizioni: i perseguitati diventano persecutori! E la catena dei successivi concili, anello dopo anello, vede sfilare le differenti schiere di “eretici” . 325: il concilio di Nicea risolve la questione sulla diversa interpretazione della natura di Cristo bollando Ario ed i suoi seguaci con la “condanna” di eresia: l’arianesimo è eretico; gli Ariani sono eretici; dunque su di loro pende una condanna: quella di eretici. 381: nuova condanna dell’Arianesimo. 431: questa volta la condanna è rivolta ai Nestoriani: il Concilio di Efeso non ammette la credenza, che si era diffusa nelle chiese persiane, non solo nelle due nature ma anche nelle due persone di Gesù. Chi sostiene ciò è bollato come eretico. 451: concilio di Calcedonia: condanna del monofisismo. 553: concilio di Costantinopoli:condanna dell’origenismo. 680: un secondo concilio di Costantinopoli: condanna del monotelismo. …. E così, una dopo l’altra, le “eresie” furono individuate me condannate. Gli eretici anch’essi individuati, inquisiti, condannati. Ma se in Occidente prevalse la clemenza e, almeno durante il Medioevo, per volere di Leone IX, si stabilì che la condanna consistesse soltanto nella scomunica, in Oriente gli “scrupolosi” imperatori bizantini vollero applicare la legge romana e non esitarono a mandare a morte Manichei ed altri “eretici”.
Il dodicesimo secolo vide il diffondersi e il moltiplicarsi delle sette giudicate eretiche; ciò convinceva molti, in seno alla Chiesa cattolica, della necessità di dover usare come pena nei confronti di queste l’esilio o la prigionia. E nel contempo, a Bologna, ferveva un rinnovato interesse per il diritto romano, che con la sua dotta terminologia e le sue erudite disquisizioni legali stimolava l’inquisizione religiosa. Il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, con il suo De haereticis, forniva ampio materiale riguardo alla legge canonica sull’eresia e pertanto non si esitò a ricopiarla nella sua interezza. E non passò molto tempo che venne rintrodotta la pena di morte a punizione degli eretici. Non nella Francia meridionale e nemmeno nell’Italia settentrionale, ma nel resto del mondo cattolico tra i persecutori dell’eresia i più accaniti furono i “popoli”: le folle dove l’individuo è sacrificato all’anonimato e dove la ragione cede il posto all’irrazionale e alla smodatezza, forse perché impaurite dalla presenza di “diversi” e dalle loro eventuali modifiche al loro “consueto”, o forse perché “pilotate” da qualcun altro o forse ancora perché la situazione offriva loro l’opportunità di dar sfogo agli istinti più feroci e disumani, forse, sì, per tutto questo, esse furono quelle che non esitarono a linciare gli eretici , ad accanirsi contro di loro. Le folle rimproveravano alla Chiesa un’eccessiva indulgenza e strappavano dalle mani dei sacerdoti i “rei” perché non eludessero la “giusta pena”. Sempre pronte a mandare al rogo ognuno che fosse soltanto sospettato di eresia, le folle potevano irrompere nelle prigioni e trascinarne fuori gli eretici per poterli veder bruciare nel rogo accuratamente allestito! Ciò infatti accadde, ad esempio, nel 1114 durante l’assenza del vescovo di Soisson e a Liegi, nello stesso anno, fu la folla che s’impose perché degli eretici venissero dati alle fiamme. Lo Stato, che pure ne era stato il responsabile, ora provava una certa riluttanza nei confronti di sì crudeli condanne. Tuttavia preferì assecondare quella che ormai era divenuta la volontà popolare per diversi motivi: riteneva, infatti, fosse proprio interesse che la Chiesa tenesse le masse legate al vincolo di un’unica religione, tanto più che anche dal punto di vista economico l’esistenza di eresie religiose e/o politiche avrebbero potuto costituire una minaccia sia per i beni ecclesiastici che per quelli dello stesso Stato. Questo motivo, di natura “squisitamente” economica, era il medesimo che spingeva anche gli appartenenti alle classi più elevate a chiedere che l’eresia venisse combattuta ed estirpata. Fu quello di Federico II il codice più rigoroso per la soppressione degli eretici. Già il nonno Federico Barbarossa aveva presieduto insieme a papa Lucio III quel Concilio di Verona che gli storici dicono essere stato il concilio in cui fu stabilita l’Inquisizione. Confische di beni, sottrazione degli stessi agli eredi, esclusione dalle cariche pubbliche, distruzione delle dimore…. prigionia a vita in casi di ritrattazione dell’eresia e, in caso contrario, il rogo.
Prima del tredicesimo secolo furono per lo più i vescovi a condurre i “lavori” dell’Inquisizione per eresia, ma essi agivano solo dopo che il popolo avesse “mormorato”. Essi rifuggivano dalle torture e se mai ricorrevano ad una sorta di “prova del fuoco”, convinti che il giudizio divino non si sarebbe lasciato attendere, poiché Dio non avrebbe mai abbandonato un innocente. Questo sistema fu dapprima sancito a Reims in un concilio di vescovi, poi proibito da papa Innocenzo III. Ambasciatori papali sorvegliavano che i vescovi non si lasciassero sfuggire degli eretici; in tal caso Avevano autorità di sospenderli dal loro ufficio.

Nel 1215 Innocenzo III indusse tutte le autorità civili a giurare di fronte al che avrebbero sterminato con “giusta pena” tutti coloro che la Chiesa avesse segnalato loro come eretici. Qualora un principe avesse trascurato il suddetto giuramento, sarebbe stato deposto e i sudditi sarebbero stati sciolti dall’obbligo dell’obbedienza nei suoi confronti.
Si rileva che con l’accentuarsi delle misure anti eresia, questa cresceva e si diffondeva in Italia come in Francia, come nei Balcani, fin all’interno del clero, tanto da mettere in pericolo l’unione stessa della Chiesa. Gregorio VII, succeduto ad Innocenzo, se ne avvide e tentò di porvi un rimedio: istituì, nel 1227, una commissione di inquisitori con a capo un monaco domenicano e sede a Firenze, il cui compito fu quello di processare gli eretici.
Qualche anno dopo, incorporò nel diritto ecclesiastico le leggi promulgate da Federico II. La Chiesa allora divenne, col consenso dello Stato, l’organo ufficiale dell’Inquisizione e della lotta all’eresia e, in accordo con lo Stato stesso, stabilì che fosse “giusto” per chi si rifiutasse di ritrattare la condanna riservata ai traditori: la pena di morte.


© rosalia de vecchi

 

lunedì 8 giugno 2015

su Caterina la Grande...

giovedì 29 luglio 2010

su Caterina la Grande...


"Allarme! Trentamila Prussiani stanno venendo a portar via la nostra piccola madre!"aveva urlato un ussaro nella notte del 29-30 giugno dell'anno 1762. Ed un ufficiale nel frattempo era venuto ad informare Caterina che i soldati erano tutti ubriachi. Per ringraziare i soldati che l'avevano aiutata a salire al potere, infatti, Caterina aveva ordinato a tutti i locali della capitale di offrir loro a nome suo birra e vodka. Ora perciò, dopo averli rassicurati lei stessa che non c'era nessun pericolo, li convinceva ad andare a dormire.
Sofia Augusta Federica, che aveva cambiato il suo nome di battesimo in Caterina, quando , alle sue nozze con il cugino Pietro di Holstein-Gottorpi Russia, designato alla successione del trono di Russia, dovette convertirsi alla fede russo-ortodossa, salì al trono il 17 luglio 1762. Figlia di Cristiano Augusto e Giovanna di Holstein – Gottorp, principi di Anhalt – Zerbst, un piccolo stato di lingua tedesca a nord della Prussia, Caterina, per la sua intelligenza e l'ampia cultura si rivelò presto superiore a Pietro, divenuto zar nel gennaio del 1762 e, nell'estate del medesimo anno, fu portata sul trono di Pietroburgo e acclamata regina da "un coup d'Etat", una congiura organizzata da due ufficiali della guardia imperiale, Aleksej e Grigorij Orlov, portò Caterina sul trono. Pietro III abdicò e poco dopo morì.
Caterina decise di non incoronare il piccolo figlio Paolo di otto anni ed essere nominata reggente per non mettere il governo nelle mani di un'oligarchia aristocratica. Ma Paolo, anche perché influenzato dai suoi sostenitori, crebbe odiando la madre che considerò sempre un'usurpatrice.
Caterina, ascesa al potere, si trovò di fronte all'ostilità del popolo russo, che continuava a vedere come legittimo suo zar Pietro, anche perchè, differentemente dagli abitanti della capitale, non aveva avuto modo di constatarne gli errori. Perciò, quando giunsero a Mosca, mentre il piccolo Paolo fu applaudito clamorosamente, Caterina fu accolta con grande freddezza.
Pietro le inviava lettere nelle quali le chiedeva di aver pietà di lui e di concedergli l'unica consolazione di cui aveva bisogno: la sua amante. Invece, confinato in una cella, veniva sorvegliato notte e giorno. Il 6 luglio 1762 Aleksej, capo delle guardie che custodivano Pietro, venuto di corsa a Pietroburgo, portò alla regina la notizia della sua morte avvenuta in una rissa con lui e le altre guardie. Le circostanze precise della morte del re deposto non furono mai rivelate e questo mistero ha alimentato varie ipotesi, tra le quali anche quella di una diretta responsabilità della regina, sebbene questa tesi sia reputata dai più piuttosto improbabile. Eppure tutta Europa guardò a lei come alla vera responsabile e solo Federico il Grande pronunciò le parole che l'assolsero, dichiarando che la regina era totalmente all'oscuro di tutto e Voltaire si schierò subito con lui. Dopo la morte di Caterina, Paolo fece sapere che, lette le carte della madre, era venuto a conoscenza che era stato Aleksej ad aver ucciso Pietro all'insaputa di Caterina.
Ma la morte di Pietro inizialmente rese più difficile il compito di governare: Caterina dovette affrontare le cospirazioni che volevano la sua deposizione, la corruzione e la debolezza del senato, la crisi economica del paese che da poco era uscito da una guerra, il rifiuto dei banchieri olandesi a concederle dei prestiti, la difficoltà di reperire i denari per pagare i soldati e la loro disorganizzazione... L'ambasciatore di Prussia commentava che il regno di Caterina sarebbe stato una breve parentesi, alimentando così la speranza di non pochi regnanti europei.
Ma lei non si perse d'animo e cominciò a ricucire una per una le sue alleanze a cominciare dalla Chiesa, nei confronti della quale ritirò l'ordine di Pietro di espropriarne le terre. Concesse ricchi doni ai propri sostenitori...ma soprattutto riuscì a mantenersi il trono grazie al fatto che i 17 anni vissuti come moglie trascurata dell'erede al trono le avevano sì conservato la giovanile vivacità ma nel contempo le avevano insegnato la pazienza, la prudenza e la diplomazia. L'intelligenza che l'aveva contraddistinta fin dall'infanzia ora lei la usava con abile capacità costruttiva e decideva di non fidarsi della competenza del senato ma di accentrare tutto nelle proprie mani e di affrontare l'assolutismo delle monarchie europee, a cominciare da quello di Federico, con il proprio. Si circondò di uomini abili, ne conquistò la lealtà e, in alcuni casi, anche l'amore e li fece lavorare duramene, ma li ricompensò molto generosamente. Creò una corte lussuosa ed eterogenea, venata di cultura francese ma di fatto diretta da una donna di cultura e di intelletto tedeschi.
Tra le cospirazioni contro di lei c'era quella che avrebbe voluto al trono Ivan IV. Voltaire esprimeva la sua preoccupazione: "Temo che la nostra amata regina possa essere uccisa." . Ma Caterina andò a trovare Ivan, lo vide devastato dagli anni trascorsi in prigione e ordinò alle guardie che se qualcuno avesse tentato la sua liberazione, piuttosto che consegnarlo avrebbero dovuto ucciderlo. Così infatti fu fatto. Più tardi, quando un ufficiale di nome Choglokov volle vendicarne la morte e tentò un agguato alla regina nello stesso palazzo reale, scoperto, fu mandato in Siberia.
In mezzo a tanto cospirare, Caterina inventò una nuova forma di governare: ogni suo amante diventava Primo Ministro! Ma rispettava sempre le forme, non si abbandonava mai a conversazioni risquée nè lo permetteva a nessuno, e con i suoi amanti fu fedele tenera e sincera. Sapeva scegliere i suoi "favoriti". Osservava e valutava con grande cura la prestanza fisica e le abilità politiche, i modi e l''intelligenza. Li faceva persino visitare dal medico di corte. Non essendo credente, non permise mai all'etica cristiana di interferire sulla scelta dei suoi ministri, che pagò sempre profumatamente ma mai tanto quanto Luigi XV le sue concubine. Queste somme, inoltre, ritornavano alla Russia sotto forma di servizi efficienti.
In quarant'anni ne mutò ventuno: qualcuno morì, qualcun altro si dimostrò infedele, uno era necessario in qualche luogo lontano, un altro si innamorò di una donna più giovane... Caterina non ebbe mai risentimento né odio nei confronti di nessuno di loro, mai li punì, se mai li licenziò, dimostrando superiorità e intelligenza. Di Grigorij Orlov, che le restò al fianco dieci anni, disse con molto amore che sarebbe stato per sempre se non si fosse stancato lui per primo, che aveva la mente di un'aquila, un intuito in ogni campo superiore a chiunque altro, un'onestà rara e che se avesse avuto un'istruzione più adeguata, le sue qualità e i suoi talenti, già supremi, sarebbero stati ancor migliori.
Fu lui infatti che si adoprò per l'emancipazione dei servi della gleba, la liberazione dei cristiani dal giogo ottomano... ma avendo tradito la regina con altre donne, fu esiliato.
Potemkin, il meglio pagato tra gli amanti di Caterina, aggiunse ricchi territori all'Impero. Era ufficiale delle guardie a cavallo, lo stesso dal quale Caterina si era fatta prestare l'uniforme per condurre le truppe contro Pietro. Avendo notato che alla spada della futura regina mancava la nappa che le Guardie portavano con molto orgoglio, Potemkin audacemente si staccò dalle fila per consegnarle la propria. Caterina lo ammirò e ne apprezzò la prestanza fisica. Destinato dal padre al sacerdozio, il giovane Potemkin aveva preferito e scelto invece la vita militare. Era innamorato di Caterina della quale lo attraevano intelligenza e bellezza e diceva che quando lei apppariva in una stanza buia, questa era come se s'illuminasse. Fu divorato dalla gelosia nei confronti di Orlov e per dimenticare la regina si isolò in periferia a studiare teologia con l'intenzione di diventare monaco. Ma Caterina ne ebbe pietà, lo mandò a chiamare a corte e fu gentile con lui, che, tagliatosi barba e capelli, indossò di nuovo l'uniforme e riprese a servire la sua regina. Aveva 35 anni ed era all'apice del suo vigore fisico e del suo fascino quando la regina lo scelse come suo amante. Se lui era lontano lei gli scriveva: il solo pensiero di questa separazione mi fa piangere.... il mio amore per te mi rende cieca...non riesco a distogliere i miei stupidi occhi da te.... Potemkin le propose il matrimonio ed alcuni storici sono convinti che i due si siano sposati in segreto. In molte lettere Caterina lo chiama"marito mio adorato" e parla di se stessa come "tua moglie". Lui però si stancò... e la regina dovette allontanarlo da sé, anche se da quel momento Caterina non scelse più un suo favorito senza la sua approvazione. Fino ad Aleksej, Caterina non fu più innamorata: era bello raffinato, dotato di una certa sensibilità poetica generosità e molta cultura. Improvvisamente colto da insopportabili dolori al ventre, dopo poco egli morì tra le braccia dell' amata regina. Caterina visse tre giorni in isolamento e dolore. "La mia stanza è divenuta un nido vuoto, nel quale mi trascino come un'ombra.... non riesco né a mangiare né a dormire... non so "cosa sarà di me... scrisse poi.
L'ultimo fu Platone Zubov che Caterina trattò come un figlio e che rimase con lei fino alla sua morte.


© rosalia de vecchi

lunedì 11 maggio 2015

The Book of Kells, il capolavoro, la vera gloria dell’arte celtica


Al centro di Dublino, all’interno di un’area universitaria di ben 220.000 m², considerata una delle più importanti d’Europa, si trova il prestigioso Trinity College, il College of the Holy and Undivided Trinity of Queen Elizabeth near Dublin, che risale al 1592, quando fu fondato per volere di Elisabetta I. Ha laureato nella sua lunga vita studenti d’eccezione: da Jonathan Swift a George Berkeley.
Qui, l’ambiente più spettacolare è la Long Room (60 metri, due piani d’altezza) nella Old Library, una libreria molto preziosa non solo per il numero dei testi conservati (più di due milioni), ma anche e soprattutto per la loro rarità quale, ad esempio, quella di una delle prime edizioni della Divina Commedia o una delle pochissime copie rimaste della proclamazione della Repubblica Irlandese… Inoltre la libreria contiene un’importante collezione di manoscritti, - cinque mila -, fra cui il celeberrimo Book of Kells.



Il Libro di Kells è un vangelo miniato da monaci irlandesi: contiene la copia riccamente decorata della traduzione latina basata sulla Vulgata di San Gerolamo del 384 d. C. dei quattro vangeli, accompagnati da note introduttive e commenti esplicativi, compilati già da Eusebio di Cesarea nel quarto secolo e corredati di numerose illustrazioni e miniature di grande bellezza, realizzate con una tecnica eccellente. Per lo stile decorativo pienamente sviluppato il Libro di Kells viene collocato tra l’VIII ed il IX secolo, infatti vi si trovano eseguite tradizioni stilistiche ed iconografiche di manoscritti precedenti. Capolavoro dell’arte celtica medievale per la grande serie di iniziali decorate in modo fantasioso e per gli originali disegni interlineari, il Libro è, anche dal punto di vista linguistico, molto interessante per l’accurata scelta di parole e frasi. Nelle 680 pagine, delle quali solo due sono in bianco e nero, sono rappresentate scene di grande complessità iconografica: vi sono esaltati gli aspetti della vita e del messaggio di Cristo e celebrati i momenti principali della sua vita, vi sono miniati i volti colorati della Madonna e dei Santi, degli Evangelisti e dei loro simboli, stilizzate figure di animali in modo da formare lettere e iniziali.Il Libro di Kells è un vangelo miniato da monaci irlandesi: contiene la copia riccamente decorata della traduzione latina basata sulla Vulgata di San Gerolamo del 384 d. C. dei quattro vangeli, accompagnati da note introduttive e commenti esplicativi, compilati già da Eusebio di Cesarea nel quarto secolo e corredati di numerose illustrazioni e miniature di grande bellezza, realizzate con una tecnica eccellente. Per lo stile decorativo pienamente sviluppato il Libro di Kells viene collocato tra l’VIII ed il IX secolo, infatti vi si trovano eseguite tradizioni stilistiche ed iconografiche di manoscritti precedenti. Capolavoro dell’arte celtica medievale per la grande serie di iniziali decorate in modo fantasioso e per gli originali disegni interlineari, il Libro è, anche dal punto di vista linguistico, molto interessante per l’accurata scelta di parole e frasi. Nelle 680 pagine, delle quali solo due sono in bianco e nero, sono rappresentate scene di grande complessità iconografica: vi sono esaltati gli aspetti della vita e del messaggio di Cristo e celebrati i momenti principali della sua vita, vi sono miniati i volti colorati della Madonna e dei Santi, degli Evangelisti e dei loro simboli, stilizzate figure di animali in modo da formare lettere e iniziali.





Il “Book of Kills”è conosciuto anche col nome di Grande Evangeliario di San Colombano e viene ritenuto il più illustre di tutta la produzione di manoscritti irlandesi ed anglosassoni di questi secoli. Da quando San Colombano, nel 590, cominciò a viaggiare con i suoi monaci per tutta Europa, nei vari monasteri fondati dal suo ordine si svilupparono gli “scriptoria”, laboratori in cui si redigevano e si decoravano con miniature i codici manoscritti, come testimoniano i monasteri la cui fondazione è attribuita a lui: quello di Ratisbona, di San Gallo, di Bobbio….Ancor prima di lui, il padre, Colombano il vecchio, aveva fondato Durrow, nell’isola di Iona, in Irlanda e Kells in Scozia. Questi, all’inizio del Medioevo, furono i primi centri importanti del sapere e qui sorsero e si svilupparono infatti gli scriptoria, i cui manoscritti presto furono conosciuti in tutte le corti reali e principesche europee, nelle abbazie e nei monasteri, in Vaticano. I più celebri di questi manoscritti sono: lo stesso Book of Kells e il Book of Durrow. E’ nella tradizione artistica degli scriptorias sviluppatasi nel movimento missionario irlandese ed anglosassone che vanno ricercate le basi della pittura della rinascita carolingia.








Il libro di Kells prende il nome dall’abbazia irlandese di Kells, della quale oggi restano poche rovine. Non si tratta, infatti, del celebre sito archeologico di Kells. L’abbazia sembra essere stata fondata da monaci originari del monastero di Iona, una delle Ebridi interne, al largo della costa occidentale della Scozia, e da qui fuggiti in seguito alle invasioni vichinghe. Il manoscritto deve essere stato realizzato a Iona e poi portato dagli stessi monaci a Kells. Iona era a quel tempo la sede di una tra le più importanti comunità cristiane, e con il moltiplicarsi delle incursioni vichinghe, dovette diventare un luogo troppo pericoloso per potervi dimorare, perciò i monaci si trasferirono a Kells, che diventò così il nuovo centro delle comunità di San Columba. Sull'origine geografica del manoscritto, tuttavia, esistono almeno cinque teorie differenti, questa, però, è quella che riscuote il più ampio consenso. E’ comunque indubbio che il Libro di Kells sia stato realizzato se non proprio da monaci appartenenti al monastero di Iona a una delle comunità di San Columba che mantenevano una stretta relazione con il monastero. Gli storici sono tuttavia certi della presenza del Libro a Kells a partire dal XII secolo, o forse dall'inizio dell'XI secolo. Uno scrittore del XII secolo descrive un grande evangelario «Questo libro contiene l'armonia dei quattro Evangelisti come ricercata da Girolamo Stridone con quasi ad ogni pagina illustrazioni diverse, che si distinguono per la varietà dei colori. Qui potresti vedere il volto della maestà, divinamente disegnato, qui i simboli mistici degli Evangelisti, ciascuno con le ali, ora sei, ora quattro, ora due; qui l'aquila, là il bue, qui l'uomo e là il leone, e altre forme quasi infinite. Guardali superficialmente con uno sguardo ordinario, e potresti pensare che sono cancellature e non lavoro curato. La più raffinata abilità ti circonda, e non la noteresti. Guardalo con più attenzione e penetreresti nel cuore stesso dell'arte, discernendo delle complessità così delicate e sottili, così piene di nodi e di legami, con dei colori così freschi e viventi, che crederesti si tratti dell'opera di un angelo, e non di un uomo».







Si dice che all’inizio del 1000 sia stato rubato e che la sua copertina originaria, dorata e probabilmente ricoperta di gemme, sia stata perduta: strappata e i resti gettati in un fosso, il rimanente recuperato rimase a Kells fino al 1654, anno in cui fu mandato a Dublino per preservarlo da eventuale distruzione o altro, dato che in quello stesso anno, la cavalleria di Oliviero Cromwell si era insediata nella chiesa del convento. Da allora si trova al Trinity College. Da altre fonti invece viene detto che il Libro rimase nel monastero di Kells fino al 1541, quando fu preso in custodia dalla Chiesa Cattolica; nel 1661 venne riportato in Irlanda e donato dall’Arcivescovo Ussher al Trinity College dove si trova tuttora.
Ad ogni modo, è al Trinity College dove è esposto al pubblico che oggi lo si può ammirare. Le pagine vengono voltate secondo un calendario regolare, in modo da mostrare al pubblico diverse parti del libro. Ma non tutte le sue parti sono esposte ai visitatori perché due volumi possono essere consultati solo da pochi studiosi.
E’ stato rilegato più volte. Nel 2000, il volume contenente il Vangelo di Marco è stato inviato a Canberra per una esposizione sui manoscritti miniati, ma durante il viaggio in aereo, purtroppo, ha subito alcuni "danni minori alla pigmentazione".
Nel 1951 è stato realizzato un facsimile in bianco e nero; nel 1990 un altro a colori corredato da un commentario di eminenti studiosi.