lunedì 11 maggio 2015

The Book of Kells, il capolavoro, la vera gloria dell’arte celtica


Al centro di Dublino, all’interno di un’area universitaria di ben 220.000 m², considerata una delle più importanti d’Europa, si trova il prestigioso Trinity College, il College of the Holy and Undivided Trinity of Queen Elizabeth near Dublin, che risale al 1592, quando fu fondato per volere di Elisabetta I. Ha laureato nella sua lunga vita studenti d’eccezione: da Jonathan Swift a George Berkeley.
Qui, l’ambiente più spettacolare è la Long Room (60 metri, due piani d’altezza) nella Old Library, una libreria molto preziosa non solo per il numero dei testi conservati (più di due milioni), ma anche e soprattutto per la loro rarità quale, ad esempio, quella di una delle prime edizioni della Divina Commedia o una delle pochissime copie rimaste della proclamazione della Repubblica Irlandese… Inoltre la libreria contiene un’importante collezione di manoscritti, - cinque mila -, fra cui il celeberrimo Book of Kells.



Il Libro di Kells è un vangelo miniato da monaci irlandesi: contiene la copia riccamente decorata della traduzione latina basata sulla Vulgata di San Gerolamo del 384 d. C. dei quattro vangeli, accompagnati da note introduttive e commenti esplicativi, compilati già da Eusebio di Cesarea nel quarto secolo e corredati di numerose illustrazioni e miniature di grande bellezza, realizzate con una tecnica eccellente. Per lo stile decorativo pienamente sviluppato il Libro di Kells viene collocato tra l’VIII ed il IX secolo, infatti vi si trovano eseguite tradizioni stilistiche ed iconografiche di manoscritti precedenti. Capolavoro dell’arte celtica medievale per la grande serie di iniziali decorate in modo fantasioso e per gli originali disegni interlineari, il Libro è, anche dal punto di vista linguistico, molto interessante per l’accurata scelta di parole e frasi. Nelle 680 pagine, delle quali solo due sono in bianco e nero, sono rappresentate scene di grande complessità iconografica: vi sono esaltati gli aspetti della vita e del messaggio di Cristo e celebrati i momenti principali della sua vita, vi sono miniati i volti colorati della Madonna e dei Santi, degli Evangelisti e dei loro simboli, stilizzate figure di animali in modo da formare lettere e iniziali.Il Libro di Kells è un vangelo miniato da monaci irlandesi: contiene la copia riccamente decorata della traduzione latina basata sulla Vulgata di San Gerolamo del 384 d. C. dei quattro vangeli, accompagnati da note introduttive e commenti esplicativi, compilati già da Eusebio di Cesarea nel quarto secolo e corredati di numerose illustrazioni e miniature di grande bellezza, realizzate con una tecnica eccellente. Per lo stile decorativo pienamente sviluppato il Libro di Kells viene collocato tra l’VIII ed il IX secolo, infatti vi si trovano eseguite tradizioni stilistiche ed iconografiche di manoscritti precedenti. Capolavoro dell’arte celtica medievale per la grande serie di iniziali decorate in modo fantasioso e per gli originali disegni interlineari, il Libro è, anche dal punto di vista linguistico, molto interessante per l’accurata scelta di parole e frasi. Nelle 680 pagine, delle quali solo due sono in bianco e nero, sono rappresentate scene di grande complessità iconografica: vi sono esaltati gli aspetti della vita e del messaggio di Cristo e celebrati i momenti principali della sua vita, vi sono miniati i volti colorati della Madonna e dei Santi, degli Evangelisti e dei loro simboli, stilizzate figure di animali in modo da formare lettere e iniziali.





Il “Book of Kills”è conosciuto anche col nome di Grande Evangeliario di San Colombano e viene ritenuto il più illustre di tutta la produzione di manoscritti irlandesi ed anglosassoni di questi secoli. Da quando San Colombano, nel 590, cominciò a viaggiare con i suoi monaci per tutta Europa, nei vari monasteri fondati dal suo ordine si svilupparono gli “scriptoria”, laboratori in cui si redigevano e si decoravano con miniature i codici manoscritti, come testimoniano i monasteri la cui fondazione è attribuita a lui: quello di Ratisbona, di San Gallo, di Bobbio….Ancor prima di lui, il padre, Colombano il vecchio, aveva fondato Durrow, nell’isola di Iona, in Irlanda e Kells in Scozia. Questi, all’inizio del Medioevo, furono i primi centri importanti del sapere e qui sorsero e si svilupparono infatti gli scriptoria, i cui manoscritti presto furono conosciuti in tutte le corti reali e principesche europee, nelle abbazie e nei monasteri, in Vaticano. I più celebri di questi manoscritti sono: lo stesso Book of Kells e il Book of Durrow. E’ nella tradizione artistica degli scriptorias sviluppatasi nel movimento missionario irlandese ed anglosassone che vanno ricercate le basi della pittura della rinascita carolingia.








Il libro di Kells prende il nome dall’abbazia irlandese di Kells, della quale oggi restano poche rovine. Non si tratta, infatti, del celebre sito archeologico di Kells. L’abbazia sembra essere stata fondata da monaci originari del monastero di Iona, una delle Ebridi interne, al largo della costa occidentale della Scozia, e da qui fuggiti in seguito alle invasioni vichinghe. Il manoscritto deve essere stato realizzato a Iona e poi portato dagli stessi monaci a Kells. Iona era a quel tempo la sede di una tra le più importanti comunità cristiane, e con il moltiplicarsi delle incursioni vichinghe, dovette diventare un luogo troppo pericoloso per potervi dimorare, perciò i monaci si trasferirono a Kells, che diventò così il nuovo centro delle comunità di San Columba. Sull'origine geografica del manoscritto, tuttavia, esistono almeno cinque teorie differenti, questa, però, è quella che riscuote il più ampio consenso. E’ comunque indubbio che il Libro di Kells sia stato realizzato se non proprio da monaci appartenenti al monastero di Iona a una delle comunità di San Columba che mantenevano una stretta relazione con il monastero. Gli storici sono tuttavia certi della presenza del Libro a Kells a partire dal XII secolo, o forse dall'inizio dell'XI secolo. Uno scrittore del XII secolo descrive un grande evangelario «Questo libro contiene l'armonia dei quattro Evangelisti come ricercata da Girolamo Stridone con quasi ad ogni pagina illustrazioni diverse, che si distinguono per la varietà dei colori. Qui potresti vedere il volto della maestà, divinamente disegnato, qui i simboli mistici degli Evangelisti, ciascuno con le ali, ora sei, ora quattro, ora due; qui l'aquila, là il bue, qui l'uomo e là il leone, e altre forme quasi infinite. Guardali superficialmente con uno sguardo ordinario, e potresti pensare che sono cancellature e non lavoro curato. La più raffinata abilità ti circonda, e non la noteresti. Guardalo con più attenzione e penetreresti nel cuore stesso dell'arte, discernendo delle complessità così delicate e sottili, così piene di nodi e di legami, con dei colori così freschi e viventi, che crederesti si tratti dell'opera di un angelo, e non di un uomo».







Si dice che all’inizio del 1000 sia stato rubato e che la sua copertina originaria, dorata e probabilmente ricoperta di gemme, sia stata perduta: strappata e i resti gettati in un fosso, il rimanente recuperato rimase a Kells fino al 1654, anno in cui fu mandato a Dublino per preservarlo da eventuale distruzione o altro, dato che in quello stesso anno, la cavalleria di Oliviero Cromwell si era insediata nella chiesa del convento. Da allora si trova al Trinity College. Da altre fonti invece viene detto che il Libro rimase nel monastero di Kells fino al 1541, quando fu preso in custodia dalla Chiesa Cattolica; nel 1661 venne riportato in Irlanda e donato dall’Arcivescovo Ussher al Trinity College dove si trova tuttora.
Ad ogni modo, è al Trinity College dove è esposto al pubblico che oggi lo si può ammirare. Le pagine vengono voltate secondo un calendario regolare, in modo da mostrare al pubblico diverse parti del libro. Ma non tutte le sue parti sono esposte ai visitatori perché due volumi possono essere consultati solo da pochi studiosi.
E’ stato rilegato più volte. Nel 2000, il volume contenente il Vangelo di Marco è stato inviato a Canberra per una esposizione sui manoscritti miniati, ma durante il viaggio in aereo, purtroppo, ha subito alcuni "danni minori alla pigmentazione".
Nel 1951 è stato realizzato un facsimile in bianco e nero; nel 1990 un altro a colori corredato da un commentario di eminenti studiosi.







giovedì 7 maggio 2015

i Normannni in Sicilia: Ruggero II

I Normanni, che dalla Scozia alla Sicilia diedero prova di straordinaria capacità di adattamento alle varie condizioni ambientali e culturali delle regioni d’Europa in cui si stanziarono, e di altrettanta straordinaria energia, quale seppero infondere nei popoli che governarono e dai quali infine furono assorbiti scomparendo non senza lasciare vasta eco della loro sagacia e del loro coraggio, governarono la Sicilia per un secolo circa, dal 1090 al 1194.
Dopo che nel 1059 Roberto il Guiscardo era riuscito ad ottenere dal Papa il riconoscimento del ducato di Puglia e Calabria da lui conquistato, col dichiararsi “vassallo della Chiesa”, egli stesso affidò al fratello Ruggero il compito di portare a termine la conquista della Sicilia.
Ruggero I, che era il più giovane dei fratelli Altavilla, conquistò l’isola, dove da più di due secoli governavano gli Arabi: dal 1061, anno in cui sbarcò a Messina, per vent’anni combatté fino ad averla tutta.
Quando nel 1101 egli morì, la Sicilia e l’Italia meridionale già erano una potenza politica europea.
Per i Normanni infatti controllare lo stretto di Messina da una parte e dall’altra il tratto di mare che va dalla Sicilia all’Africa significava poter disporre dei più importanti porti dell’epoca, da quello di Amalfi e di Salerno a quello di Palermo e a quelli sulla costa settentrionale dell’Africa, compresi quelli arabi di Spagna e Tunisia e pertanto poter gestire il commercio di una vasta area mediterranea.
Ruggero II, secondogenito del Gran Conte di Sicilia, successe al padre. Unificò i possedimenti normanni, il ducato di Puglia e la contea di Calabria e Sicilia, e si fece incoronare re di Sicilia e di Puglia nel 1130 dall’Antipapa Anacleto II nella Chiesa della Martorana, a Palermo, città che scelse come capitale del suo regno. Infatti aveva colto l’occasione della morte senza eredi di Guglielmo, duca di Puglia e nipote di Roberto il Guiscardo, per reclamare per sé quale più diretto parente i territori dell’Italia meridionale appartenenti agli Altavilla e, non avendoli ottenuti, se ne impadronì con la forza delle armi. Primo tra tutti ad osteggiarlo era stato lo stesso Papa Onorio II, che aveva promosso contro di lui una Crociata, destinata a fallire.
Di Ruggero poco si sa relativamente all’infanzia: nato il 22 dicembre del 1095, visse a Palermo ed ebbe valentissimi precettori sia greci che arabi, infatti parlava correntemente entrambe le due lingue. Quando nel 1101 morì il padre, il governo passò alla madre Adelasia di Monferrato, che, energica, autorevole ed illuminata, insieme ai suoi valenti consiglieri, adempì il suo compito con grande prestigio. Venuto a mancare prematuramente, a soli 10 anni, anche il fratello maggiore Simone, il titolo di Conte di Sicilia spettò a lui, che, raggiunta la maggiore età, diede subito prova della sua abilità di governo.
Ambizioso e pieno di coraggio come lo zio Roberto il Guiscardo, pronto nel giudizio e nelle decisioni, Ruggero era un uomo che non si sottraeva a nessuna fatica, tanto che il suo biografo musulmano, Idrisi, scrisse di lui che nel sonno era più attivo di molti uomini svegli. Non si lasciò fermare nella realizzazione dei suoi disegni da nessuna forza politica, pur essendosi procurato con la fermezza del suo agire non pochi nemici , a cominciare dal Pontefice, che fin dall’inizio non a torto vide in lui chi avrebbe potuto limitare o indebolire il proprio potere. Né meno ostili gli erano gli Imperatori tedeschi, ai quali aveva tolto le terre d’Abruzzo o gli Arabi, che non avevano smesso di sperare in una riconquista, o ancora i Bizantini, che continuavano a desiderare di realizzare il sogno antico di riappropriarsi dell’Italia meridionale, e le Repubbliche marinare di Genova, di Pisa e di Venezia che erano gelose dei propri interessi commerciali. Ruggero li fronteggiò tutti ed ogni volta, dopo averli sconfitti, ne uscì più forte. Alla morte dell'antipapa Anacleto II, nel 1138, dopo aver definitivamente vinto papa Innocenzo II, riuscì ad ottenerne il riconoscimento del titolo regio, in qualità di vassallo.
Così, ormai stipulata la pace con il Pontefice, Ruggero II, poté riprendere la sua espansione nel Mediterraneo, dalla costa tunisina alla Grecia, fino a tentare un attacco contro la stessa Costantinopoli.
Ma soprattutto egli diede inizio, avvalendosi del consiglio e dell’’aiuto di intelligenti collaboratori, scelti tra Greci, Ebrei, Arabi, all’edificazione di uno stato moderno, di gran lunga il più avanzato di tutti gli altri Stati medievali europei: il Regno di Sicilia divenne infatti uno dei più potenti ed ordinati con una propria amministrazione moderna e centralizzata, una giustizia equa garante della persona e dei beni e con una base legislativa. Emerse, dalle sue riforme, una nuova figura di sovrano, dotata più che di coraggio e di forza, qualità comuni ai più grandi uomini del medioevo, d’ intelligenza, di chiara visione dello Stato e di potere. Una figura di sovrano che del futuro assolutismo monarchico possedeva già il carattere centralizzato dello Stato, ma che nel contempo univa le qualità di un mecenate e di un futuro principe illuminato.
Ruggero, pur non opponendosi all’ormai stabilizzato sistema feudale, limitò il potere dei feudatari con l’istituzione di tribunali alle sue dirette dipendenze, che avevano giurisdizione su tutti indistintamente e con un complesso unitario di leggi, esteso a tutte le parti del regno. Nel 1140 promulgò una raccolta di leggi, nota con il nome di “Le assise di Ariano”: nel castello di Aviano Irpino, luogo nel quale aveva tenuto il Primo Parlamento, appena divenuto re, Ruggero emanò il corpus legislativo che è da considerare la nuova costituzione del Regno di Sicilia. Una sintesi di tradizioni giuridiche dal diritto romano al Codice Giustinianeo, all'Editto di Rotari e allo stesso diritto ecclesiastico. Una costituzione che sanciva il potere forte e centralizzato di un governo imperniato sulla stessa figura carismatica e onnipresente del re, coadiuvato dalla “Magna curia, un fedele e sceltissimo Consiglio della Corona, che eliminava ogni pericolo di anarchia e vanificava ogni tentativo di autonomia locale, pur nell’assoluta tolleranza religiosa e nel totale rispetto delle diversità etniche dei vari popoli del regno. Musulmani, Ebrei, Greci ortodossi, chiunque poteva accedere ad alte cariche se ne possedeva le qualità. Egli stesso vestiva secondo i costumi musulmani. Ottenuto l’ordine nei rapporti con gli Stati esteri e all’interno del regno, il suo liberalismo ottenne prosperità e benessere per tutti i sudditi. Idrisi nel suo “Libro di re Ruggero” racconta come i contadini, sebbene sfruttati, come sempre, dai più furbi, lavoravano e mantenevano rigogliose le campagne ma potevano godere di canti e danze delle numerose feste religiose…come ad esempio, durante la vendemmia, con feste simili agli antichi saturnali e già anticipatrici del carnevale…Città come Messina, Catania, Siracusa, secondo quanto ci tramanda Idrisi, splendevano come nei tempi cartaginesi e greco latini. Palermo era divenuta la città più bella del mondo. “Fa girare la testa a chi la guarda – scrive -… ha edifici di tale bellezza che i viaggiatori si mettono in cammino attratti dalla fama delle meraviglie che quivi offre l’architettura, lo squisito lavorio e l’ornamento di tanti ammirevoli ritrovati dell’arte.”.
Ibn Jubair, visitatore musulmano di Palermo nel 1184,si dice abbia esclamato : “Una stupenda città! … I palazzi del re la circondano come collana al collo di una fanciulla dai floridi seni.”. I visitatori restavano stupiti per la pacifica convivenza di genti tanto diverse, tendevano l’orecchio alle diverse favelle e guardavano ammirati l’ergersi affiancate di chiese sinagoghe e moschee, mentre si aggiravano per le vie frequentate da cittadini eleganti e giardini rigogliosi e quieti. Ruggero aveva fatto pervenire abili setaioli dalla Grecia ed ora si producevano sete sontuose e stoffe a fili d’oro presso i tessitori. Gli intagliatori creavano delicati cestini cesellati in avorio e i pavimenti delle case splendevano di mosaici colorati. Nel 1143 artisti greci costruirono un convento per un ordine di monache greche, oggi la Martorana, che ha conservato poco dei suoi elementi originari.

Lungo la parte interna della cupola corre l’iscrizione in arabo di un inno cristiano-greco! !
Nel 1132 Ruggero ordinò la costruzione della splendida Cappella Palatina, un vero gioiello in ogni suo particolare: i pavimenti in marmo policromo, il soffitto in legno a favi d’ape, i 282 mosaici…. e il Cristo che guarda solenne sopra l’altare. …
Aveva 59 anni Ruggero II quando morì; era persino un po’ più vecchio del grande nipote Federico, che invece ne aveva appena 57 quando ebbe compiuto il suo destino terreno!
Due vite che nella loro brevità sfidano i tempi per l’eccellente valore che le contraddistingue.

Cristo incorona Ruggero II re di Sicilia. Mosaico nella chiesa della Martorana a Palermo (metà del XII secolo).



Alessandro, abate di S. Salvatore di Telese, racconta così dell’incoronazione di Ruggero II:
"…Fu tale la pompa che parve che tutte le ricchezze e le magnificenze del mondo si fossero riunite a Palermo. Le sale della reggia erano ricoperte di preziose tappezzerie, i pavimenti di tappeti di squisita fattura. Il nuovo re uscì preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno che incedevano a coppie, montati su superbi cavalli dai finimenti d'oro e d'argento; seguivano il monarca, i più autorevoli personaggi anch'essi riccamente vestiti e su cavalli magnificamente bardati. Giunto al duomo, Ruggero fu consacrato dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo e ricevette la corona dalle mani del principe di Capua. Alla cerimonia seguirono sontuosi banchetti in cui non fu usato altro vasellame che d'oro e d'argento; gli scalchi, i paggi, i donzelli e perfino i valletti che servivano le mense erano vestiti di tuniche di seta….".


dai "quaderni di storia per i ragazzi" di rosalia de vecchi

Faltonia Betizia Proba

Miniatura dell'opera De mulieribus claris di giovanni Boccaccio raffigurante Faltonia Betizia Proba, conservato alla Bibliotèque Nationale de France, Département des Manuscrits, Division occidentale

Se Petrarca aveva scritto il "De viris illustribus", Boccaccio sentì l'esigenza di scrivere un'opera che parlasse delle donne celebri. Così si mise all'opera e nell'arco di appena un anno completò il suo "De mulieribus claris", dove attraverso la presentazionne di 106 figure femminili, da Eva ad Iside, da Lavinia a Clelia..., voleva fornire esempi sui quali meditare, che fossero stimolo alla virtù.
Il grande Boccaccio ci lascia ancor oggi, con la sua opera, materia di meditazione e ci esorta a considerare l'importanza del ruolo socio-culturale della donna nella società di tutti i tempi, oltre che a lasciarci sedurre dal fascino di individualità forti, la cui femminilità è solo uno degli elementi formativi di essa.
Tra i tanti nomi di divinità, figure mitologiche, regine, donne di Stato.... tutte più o meno famose, tutte più o meno individualità di grande fascino, figura quello di Faltonia Betizia Proba, nota poetessa romana, considerata la più importante del periodo della tarda latinità.
Faltonia Betizia Proba visse nel IV secolo.
Apparteneva ad una famiglia aristocratica; il nonno , il padre ed il fratello erano stati consoli. Pagana di educazione, si convertì al Cristianesimo. Fu sposa e madre di due figli. Anche il marito apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Roma e ricoprì cariche importanti. Entrambi possedevano gli Hortii Aciliorum, al Pincio. Entrambi, anche se il marito morì molti anni prima di lei, furono sepolti nella Basilica di Sant'Anastasia al Palatino.
Le opere che si ritiene la poetessa abbia scritto prima della sua conversione sono due poemi, dei quali solo uno è pervenuto fino ad oggi. Ma è interessante, soprattutto, il Cento Vergilianus de laudibus Christi o, più semplicemente, De laudibus Christi, composto intorno al 362. Si tratta di un centone virgiliano: 694 esametri su un argomento cristiano: la creazione del mondo, la vita di Gesù, episodi accuratamente selezionati dell'antico e del nuovo Testamento... Un'opera che, nonostante il parere contrario di alcuni, ebbe successo e fu molto famosa al suo tempo, che in un'epoca come quella, di confronto sui temi cristiani e di frequenti "anatemi", superò la "censura" e poteva essere recitata in pubblico, che non fu mai considerata eretica ma fu solo inserita tra gli scritti apocrifici. L'opera, senza dubbio, riveste un'importanza rilevante, se considerata anche come la testimonianza di un passaggio: il trasformarsi dell'antecedente cultura pagana degli ambienti aristocratici in quella cristiana. Faltonia, donna colta, come ci attestano i suoi rapporti con alcune eminenti personalità del suo tempo, operò una sintesi tra l'elemento cristiano quale proviene dalle Sacre Scitture e quello pagano che le derivava da un'eccellente cultura classica; di fatto l'opera è una ripresentazione delle Sacre Scritture con il linguaggio virgiliano. Faltonia, con la sua opera, testimonia peraltro l'esistenza di gruppi femminili di studio delle Scritture, studio previsto dalla Catechesi precedente il Battesimo e dopo approfondito e maturato con il dialogo e la riflessione.
L'opera, anche sul piano letterario, è interessante per lo stile, che oggi potremmo assimilare a quello del flashbak, in quanto la scrittrice sceglie e dispone i versi, tenendo conto dell'importanza degli accostamenti e del loro potere evocativo al fine di dare un colore, un'interpretazione personale ai fatti. L'autrice non vi usa un linguaggio tecnico, una terminologia teologica; la sua visione del Cristianesimo la orienta più che verso dibattitti teologici, verso un'espressione poetica degli stessi contenuti dottrinali e spirituali; l'elemento escatologico, la dottrina cristiana della Salvezza è al centro dell'opera, ma è narrato con forte colore virgiliano: dalla guerra civile che ci costringe a meditare sulla precarietà della condizione umana, attraverso il caos, si passa alla salvezza, dalla sofferenza alla speranza. In questo "ambiente" virgiliano intriso di contenuti escatologici, in questo "ambiente" che prende le mosse dalla guerra civile per profetizzare una nuova età dell'oro, la sostanza del messaggio cristiano di Salvezza resta integro.
Moderno spirito, potrebbe dirsi se non si avesse la consapevolezza che alcuni valori umani sono rilevabili dovunque e in ogni tempo, Faltonia interpreta la coppia Adamo-Eva come modello d'amore libero da ogni tipo di volontà di possesso o sottomissione della donna da parte dell'uomo.
Sensibilissima, come forse lo furono i primi Cristiani, i quali erano ancora pervasi del "romano diritto", all'importanza della Giustizia, vista soprattutto sul piano umano e sociale, la poetessa denuncia e condanna l'avidità e l'egoismo, la ricchezza e la frode e, cosa ancor più rilevante, perché testimonia in lei la fusione degli elementi più sostanziali e significativi delle due culture, la "romana" pagana e la "romana" cristiana, incentra la sua riflessione sulla responsabilità della scelta individuale. Il Bene e/o il Male sono i risultati di una scelta umana. Ma la visione esistenziale di Faltonia assume il carattere più spiccatamente cristiano, quando la poetessa accoglie il tema del perdono divino, che del Cristianesimo infatti è la più importante novità.


© rosalia de vecchi


frans Hals 1580-1666



Nato ad Anversa da una famiglia proveniente da Harlem, dove il padre aveva esercitato la professione di magistrato, mancano notizie certe su di lui fino al 1616, quando fu arrestato per aver picchiato la moglie. Fu solo ammonito di non cadere nello stesso illecito e di evitare le cattive compagnie di ubriachi. Ma non ,molto tempo dopo la moglie morì ed egli convolò in seconde nozze. Da questo matrimonio nacquero ben dieci figli! La seconda moglie era una donna molto forte e paziente che seppe, per lunghi quarantasette anni, sopportare i periodi difficili e di povertà, che si alternarono, nella loro vita, a quelli di prosperità. e non solo: anche il suo carattere difficile e il suo comportamento non sempre irreprensibile. Ma, ciò nonostante, egli era e fu un grande pittore ed anche, perché no? , un uomo capace di allegria che sapeva divertire ed essere di amabile compagnia. Frans Hals era ancora abbastanza giovane-aveva trentasei anni-quando riscosse il suo grande successo in seguito all'esposizione di uno dei suoi cinque quadri di Doelen: il banchetto degli ufficiali della corporazione dei tiratori di San Joris. Erano stati gli stessi ufficiali della corporazione suddetta che, secondo loro tradizione,quella di farsi ritrarre di tanto in tanto in alta uniforme, commissionarono il quadro ad Hans. Tutti vistosamente vestiti , convenuti a banchetto, con lo stendardo della compagnia in bella vista, gli ufficiali si videro ritratti nel dipinto e vollero, soddisfatti, dimostrare la loro gratitudine al pittore ricompensandolo lautamente.
Undici anni dopo l'artista eseguì i quadri che oggi sono ritenuti "trofei" dell'arte olandese: Il venditore di aringhe, L'allegro terzetto, il Cavaliere che ride. Questo, con un sorriso misterioso e sottile da venir da alcuni comparato addirittura alla Gioconda! Anche il suo celebre Autoritratto risale al medesimo periodo: con il suo bel volto dallo sguardo non esente da una certa ansia, gli abiti eleganti, le braccia conserte ritrae l'uomo e l'artista che nella vita si dibatté sempre tra arte e bellezza, prosperità e successo da una parte , povertà e miseria, ubriachezza e vizio dall'altra.
Intorno al 1627 venne per lui un secondo periodo fruttuoso: dipinse il secondo gruppo dei Doelen, con il quadro di Gli ufficiali della corporazione di San Joris , dalle tinte forti e luminose, ben adatte a conferire splendore al gruppo di uomini desiderosi di "gloria" da lui ritratti. Richiesto di ritrarli di nuovo, poiché gli ufficiali avevano ancora una volta molto apprezzato la sua prestazione artistica, Hans dimostrò il suo talento conferendo a ciascuno di essi un volto ed un'espressione personale e attraente, tanto che questi suoi ritratti vengono valutati da più parti come i più notevoli ritratti di ogni tempo. Ma ancor più essi acquistano interesse e valore per il loro testimoniare l'ascesa in Olanda di un'orgogliosa classe  media  e  perciò interessavano i critici d'arte di quei tempi, poiché non erano di soggetto religioso né mitologico, non dipingevano paesaggi o nudi...  e anche per lo stile dell'artista che amava  i tratti  frettolosi , le pennellate a macchie colorate che creavano piuttosto suggestioni...
Come spesso accade, chi giace nell'oblio talora riemerge acquistando fama - forse eccessiva- , così oggi Hals è ritenuto da alcuni "il più brillante ritrattista che il mondo abbia visto".
Ma, a prescindere dal voler ad ogni costo immetterlo in una classifica di pittori e/o ritrattisti con l'intenzione di attribuirgli un posto o un primato ben definito, egli è senz'altro artista degno di ammirazione ed amore, come tanti altri che, pur tra le sofferenze della vita, mai smisero di essere sedotti dall'ispirazione artistica e di sedurre con la loro attività creativa un pubblico che pur troppo spesso si lascia suggestionare dalle mode dei tempi.
Famosissimi i suoi ritratti di questo periodo! L'allegro beone, il raccoglitore di sabbia, la zingara, i buffoni., la strega di Harlem.... il ritratto di Descartes che pure deluse il pubblico... e dipinse fino ai suoi ottant'anni, nonostante il destino gli infliggesse colpi assai duri: la malattia mentale ed il conseguente ricovero in manicomio del figlio Pieter, il riformatorio per l'indocile primogenita, le citazioni per debiti, l'umiliazione della miseria e della carità ricevuta.... fino a quando ricevette dal Comune una pensione ed il sussidio di una certa quantità di torba per scaldare il suo focolare... e nel contempo gli fu commissionato di dipingerei due quadri:  Gli amministratori dell'ospizio di carità e le Amministratrici dell'ospizio di carità.
Aveva ormai ottantaquattro anni !
Questi suoi quadri come quelli del gruppo dei Doelen sono oggi esposti nel Museo Frans Hals di Haarlem.

Morì povero e nei secoli immediatamente successivi alla sua dipartita scese nell'oblio del mondo.

© rosalia de vecchi

I presupposti dell'Inquisizione

l'inquisizione di Cristiano Banti

Se consideriamo l’Antico Testamento, ad un dato momento, vi troviamo scritto che gli eretici, coloro che “erano andati dietro agli dei stranieri “, se la loro adesione all’eresia fosse stata comprovata da tre testimoni degni di fede ( escluse ovviamente le donne che per la legge ebraica antica non potevano testimoniare!) dovevano essere condotti fuori le mura della città e “fatti oggetto di sassate fino al loro spegnersi definitivo”. ( Deut.XVII, 25).
Analogamente, se prendiamo il Vangelo di S. Giovanni, (XV, 6), possiamo, anche qui, leggere: “Chi non rimane in me è gettato via come il tralcio che inaridisce, e vien poi raccolto e gettato ad ardere nel fuoco”.
Vale, a questo punto, precisare il carattere di immagine delle parole di Giovanni ! Che, qualora fossero, come taluni fanno e troppi hanno fatto, da intendere alla lettera, ciò infatti vanificherebbe tutta la novità del messaggio di Cristo: l’uguaglianza e il perdono! Se mai, infatti, andrebbero interpretate in connessione con ben altre visioni riguardanti l’evoluzione dell’uomo e i suoi rapporti col cosmo! Come il tralcio reciso dall’albero dopo poco inaridisce, così l’uomo che disconosce la sua origine spirituale e se ne separa finisce con l’inaridirsi e col consumare la propria natura originaria. L’immagine del rogo , ad esempio, è consueta nelle fiabe: nel rogo la strega si consuma e perisce. Il fuoco brucia il male. E la combustione separa le sostanze e trasforma gli elementi. … Ma questo tipo d’indagine, ora qui, ci condurrebbe lontano dall’argomento intrapreso. …
Nel mondo antico, e purtroppo dolorosamente ancor oggi, l’άσέβεια (asebeia), ossia l’empietà dell’eresia, come fu intesa e nominata dai Greci, era punita con la morte; la legislazione greca antica, infatti, contemplava la pena di morte per chi non rendesse omaggio alle divinità del proprio Pantheon. Pensiamo, ad esempio, a Socrate costretto a bere la cicuta! Non dissimile fu la situazione nella Roma imperiale nei confronti dei Cristiani! Ed è assai curioso che proprio una Roma che sotto Augusto aveva eretto il Pantheon, ora diveniva “solerte custode” delle proprie tradizioni religiose! Ora che un profeta nuovo era venuto a introdurre nella società forti elementi di diversità che avrebbero potuto scardinare l’ordine precostituito!
Nella Roma dei Cesari gli dei erano alleati dello Stato: chi non riconosceva quegli dei diveniva reo di tradimento e doveva essere punito con la morte.
E questo, che era considerato un reato assai grave forse proprio per la sua pericolosità, veniva perseguito con molta attenzione: nessuno accusava qualcuno reo di simile colpa? Allora si provvedeva subito ad “inchiodare” ( e qui scegliamo intenzionalmente l’uso d’un termine ambivalente dal forte sapore analogico!) il “traditore”, il “diverso”, colui che “osava” coltivare un’idea propria del Divino! Come? Facendo un’ “inquisizio”, ossia un’inchiesta su casi sospetti.
Anche qui, la Chiesa di Roma non esitò a far sua una pratica giuridica già cara ai Romani. E già alle soglie del Medioevo dava la forma di questa procedura romana a ciò che chiamò appunto Inquisizione. L’anno 313, che riconobbe libertà di culto ai Cristiani sembrò forse a qualcuno degli allora viventi un anno di svolta: si riconosceva libertà di culto ad un nuovo credo! Ma poi, non molto dopo, nel 380, venne l’Editto di Tessalonica: l’imperatore Teodosio proclama il Cristianesimo religione di Stato. Nulla dunque è cambiato. Solo un sovvertimento di posizioni: i perseguitati diventano persecutori! E la catena dei successivi concili, anello dopo anello, vede sfilare le differenti schiere di “eretici” . 325: il concilio di Nicea risolve la questione sulla diversa interpretazione della natura di Cristo bollando Ario ed i suoi seguaci con la “condanna” di eresia: l’arianesimo è eretico; gli Ariani sono eretici; dunque su di loro pende una condanna: quella di eretici. 381: nuova condanna dell’Arianesimo. 431: questa volta la condanna è rivolta ai Nestoriani: il Concilio di Efeso non ammette la credenza, che si era diffusa nelle chiese persiane, non solo nelle due nature ma anche nelle due persone di Gesù. Chi sostiene ciò è bollato come eretico. 451: concilio di Calcedonia: condanna del monofisismo. 553: concilio di Costantinopoli:condanna dell’origenismo. 680: un secondo concilio di Costantinopoli: condanna del monotelismo. …. E così, una dopo l’altra, le “eresie” furono individuate me condannate. Gli eretici anch’essi individuati, inquisiti, condannati. Ma se in Occidente prevalse la clemenza e, almeno durante il Medioevo, per volere di Leone IX, si stabilì che la condanna consistesse soltanto nella scomunica, in Oriente gli “scrupolosi” imperatori bizantini vollero applicare la legge romana e non esitarono a mandare a morte Manichei ed altri “eretici”.
Il dodicesimo secolo vide il diffondersi e il moltiplicarsi delle sette giudicate eretiche; ciò convinceva molti, in seno alla Chiesa cattolica, della necessità di dover usare come pena nei confronti di queste l’esilio o la prigionia. E nel contempo, a Bologna, ferveva un rinnovato interesse per il diritto romano, che con la sua dotta terminologia e le sue erudite disquisizioni legali stimolava l’inquisizione religiosa. Il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, con il suo De haereticis, forniva ampio materiale riguardo alla legge canonica sull’eresia e pertanto non si esitò a ricopiarla nella sua interezza. E non passò molto tempo che venne rintrodotta la pena di morte a punizione degli eretici. Non nella Francia meridionale e nemmeno nell’Italia settentrionale, ma nel resto del mondo cattolico tra i persecutori dell’eresia i più accaniti furono i “popoli”: le folle dove l’individuo è sacrificato all’anonimato e dove la ragione cede il posto all’irrazionale e alla smodatezza, forse perché impaurite dalla presenza di “diversi” e dalle loro eventuali modifiche al loro “consueto”, o forse perché “pilotate” da qualcun altro o forse ancora perché la situazione offriva loro l’opportunità di dar sfogo agli istinti più feroci e disumani, forse, sì, per tutto questo, esse furono quelle che non esitarono a linciare gli eretici , ad accanirsi contro di loro. Le folle rimproveravano alla Chiesa un’eccessiva indulgenza e strappavano dalle mani dei sacerdoti i “rei” perché non eludessero la “giusta pena”. Sempre pronte a mandare al rogo ognuno che fosse soltanto sospettato di eresia, le folle potevano irrompere nelle prigioni e trascinarne fuori gli eretici per poterli veder bruciare nel rogo accuratamente allestito! Ciò infatti accadde, ad esempio, nel 1114 durante l’assenza del vescovo di Soisson e a Liegi, nello stesso anno, fu la folla che s’impose perché degli eretici venissero dati alle fiamme. Lo Stato, che pure ne era stato il responsabile, ora provava una certa riluttanza nei confronti di sì crudeli condanne. Tuttavia preferì assecondare quella che ormai era divenuta la volontà popolare per diversi motivi: riteneva, infatti, fosse proprio interesse che la Chiesa tenesse le masse legate al vincolo di un’unica religione, tanto più che anche dal punto di vista economico l’esistenza di eresie religiose e/o politiche avrebbero potuto costituire una minaccia sia per i beni ecclesiastici che per quelli dello stesso Stato. Questo motivo, di natura “squisitamente” economica, era il medesimo che spingeva anche gli appartenenti alle classi più elevate a chiedere che l’eresia venisse combattuta ed estirpata. Fu quello di Federico II il codice più rigoroso per la soppressione degli eretici. Già il nonno Federico Barbarossa aveva presieduto insieme a papa Lucio III quel Concilio di Verona che gli storici dicono essere stato il concilio in cui fu stabilita l’Inquisizione. Confische di beni, sottrazione degli stessi agli eredi, esclusione dalle cariche pubbliche, distruzione delle dimore…. prigionia a vita in casi di ritrattazione dell’eresia e, in caso contrario, il rogo.
Prima del tredicesimo secolo furono per lo più i vescovi a condurre i “lavori” dell’Inquisizione per eresia, ma essi agivano solo dopo che il popolo avesse “mormorato”. Essi rifuggivano dalle torture e se mai ricorrevano ad una sorta di “prova del fuoco”, convinti che il giudizio divino non si sarebbe lasciato attendere, poiché Dio non avrebbe mai abbandonato un innocente. Questo sistema fu dapprima sancito a Reims in un concilio di vescovi, poi proibito da papa Innocenzo III. Ambasciatori papali sorvegliavano che i vescovi non si lasciassero sfuggire degli eretici; in tal caso Avevano autorità di sospenderli dal loro ufficio.
Nel 1215 Innocenzo III indusse tutte le autorità civili a giurare di fronte al che avrebbero sterminato con “giusta pena” tutti coloro che la Chiesa avesse segnalato loro come eretici. Qualora un principe avesse trascurato il suddetto giuramento, sarebbe stato deposto e i sudditi sarebbero stati sciolti dall’obbligo dell’obbedienza nei suoi confronti.
Si rileva che con l’accentuarsi delle misure anti eresia, questa cresceva e si diffondeva in Italia come in Francia, come nei Balcani, fin all’interno del clero, tanto da mettere in pericolo l’unione stessa della Chiesa. Gregorio VII, succeduto ad Innocenzo, se ne avvide e tentò di porvi un rimedio: istituì, nel 1227, una commissione di inquisitori con a capo un monaco domenicano e sede a Firenze, il cui compito fu quello di processare gli eretici.
Qualche anno dopo, incorporò nel diritto ecclesiastico le leggi promulgate da Federico II. La Chiesa allora divenne, col consenso dello Stato, l’organo ufficiale dell’Inquisizione e della lotta all’eresia e, in accordo con lo Stato stesso, stabilì che fosse “giusto” per chi si rifiutasse di ritrattare la condanna riservata ai traditori: la pena di morte. 


© rosalia de vecchi

mercoledì 6 maggio 2015

su Caterina la Grande...


"Allarme! Trentamila Prussiani stanno venendo a portar via la nostra piccola madre!"aveva urlato un ussaro nella notte del 29-30 giugno dell'anno 1762. Ed un ufficiale nel frattempo era venuto ad informare Caterina che i soldati erano tutti ubriachi. Per ringraziare i soldati che l'avevano aiutata a salire al potere, infatti, Caterina aveva ordinato a tutti i locali della capitale di offrir loro a nome suo birra e vodka. Ora perciò, dopo averli rassicurati lei stessa che non c'era nessun pericolo, li convinceva ad andare a dormire.
Sofia Augusta Federica, che aveva cambiato il suo nome di battesimo in Caterina, quando , alle sue nozze con il cugino Pietro di Holstein-Gottorpi Russia, designato alla successione del trono di Russia, dovette convertirsi alla fede russo-ortodossa, salì al trono il 17 luglio 1762. Figlia di Cristiano Augusto e Giovanna di Holstein – Gottorp, principi di Anhalt – Zerbst, un piccolo stato di lingua tedesca a nord della Prussia, Caterina, per la sua intelligenza e l'ampia cultura si rivelò presto superiore a Pietro, divenuto zar nel gennaio del 1762 e, nell'estate del medesimo anno, fu portata sul trono di Pietroburgo e acclamata regina da "un coup d'Etat", una congiura organizzata da due ufficiali della guardia imperiale, Aleksej e Grigorij Orlov, portò Caterina sul trono. Pietro III abdicò e poco dopo morì.
Caterina decise di non incoronare il piccolo figlio Paolo di otto anni ed essere nominata reggente per non mettere il governo nelle mani di un'oligarchia aristocratica. Ma Paolo, anche perché influenzato dai suoi sostenitori, crebbe odiando la madre che considerò sempre un'usurpatrice.
Caterina, ascesa al potere, si trovò di fronte all'ostilità del popolo russo, che continuava a vedere come legittimo suo zar Pietro, anche perchè, differentemente dagli abitanti della capitale, non aveva avuto modo di constatarne gli errori. Perciò, quando giunsero a Mosca, mentre il piccolo Paolo fu applaudito clamorosamente, Caterina fu accolta con grande freddezza.
Pietro le inviava lettere nelle quali le chiedeva di aver pietà di lui e di concedergli l'unica consolazione di cui aveva bisogno: la sua amante. Invece, confinato in una cella, veniva sorvegliato notte e giorno. Il 6 luglio 1762 Aleksej, capo delle guardie che custodivano Pietro, venuto di corsa a Pietroburgo, portò alla regina la notizia della sua morte avvenuta in una rissa con lui e le altre guardie. Le circostanze precise della morte del re deposto non furono mai rivelate e questo mistero ha alimentato varie ipotesi, tra le quali anche quella di una diretta responsabilità della regina, sebbene questa tesi sia reputata dai più piuttosto improbabile. Eppure tutta Europa guardò a lei come alla vera responsabile e solo Federico il Grande pronunciò le parole che l'assolsero, dichiarando che la regina era totalmente all'oscuro di tutto e Voltaire si schierò subito con lui. Dopo la morte di Caterina, Paolo fece sapere che, lette le carte della madre, era venuto a conoscenza che era stato Aleksej ad aver ucciso Pietro all'insaputa di Caterina.
Ma la morte di Pietro inizialmente rese più difficile il compito di governare: Caterina dovette affrontare le cospirazioni che volevano la sua deposizione, la corruzione e la debolezza del senato, la crisi economica del paese che da poco era uscito da una guerra, il rifiuto dei banchieri olandesi a concederle dei prestiti, la difficoltà di reperire i denari per pagare i soldati e la loro disorganizzazione... L'ambasciatore di Prussia commentava che il regno di Caterina sarebbe stato una breve parentesi, alimentando così la speranza di non pochi regnanti europei.
Ma lei non si perse d'animo e cominciò a ricucire una per una le sue alleanze a cominciare dalla Chiesa, nei confronti della quale ritirò l'ordine di Pietro di espropriarne le terre. Concesse ricchi doni ai propri sostenitori...ma soprattutto riuscì a mantenersi il trono grazie al fatto che i 17 anni vissuti come moglie trascurata dell'erede al trono le avevano sì conservato la giovanile vivacità ma nel contempo le avevano insegnato la pazienza, la prudenza e la diplomazia. L'intelligenza che l'aveva contraddistinta fin dall'infanzia ora lei la usava con abile capacità costruttiva e decideva di non fidarsi della competenza del senato ma di accentrare tutto nelle prorprie mani e di affrontare l'assolutismo delle monarchie europee, a cominciare da quello di Federico, con il proprio. Si circondò di uomini abili, ne conquistò la lealtà e, in alcuni casi, anche l'amore e li fece lavorare duramene, ma li ricompensò molto generosamente. Creò una corte lussuosa ed eterogenea, venata di cultura francese ma di fatto diretta da una donna di cultura e di intelletto tedeschi.
Tra le cospirazioni contro di lei c'era quella che avrebbe voluto al trono Ivan IV. Voltaire esprimeva la sua preoccupazione: "Temo che la nostra amata regina possa essere uccisa." . Ma Caterina andò a trovare Ivan, lo vide devastato dagli anni trascorsi in prigione e ordinò alle guardie che se qualcuno avesse tentato la sua liberazione, piuttosto che consegnarlo avrebbero dovuto ucciderlo. Così infatti fu fatto. Più tardi, quando un ufficiale di nome Choglokov volle vendicarne la morte e tentò un agguato alla regina nello stesso palazzo reale, scoperto, fu mandato in Siberia.
In mezzo a tanto cospirare, Caterina inventò una nuova forma di governare: ogni suo amante diventava Primo Ministro! Ma rispettava sempre le forme, non si abbandonava mai a conversazioni "risquées" nè lo permetteva a nessuno, e con i suoi amanti fu fedele tenera e sincera. Sapeva scegliere i suoi "favoriti". Osservava e valutava con grande cura la prestanza fisica e le abilità politiche, i modi e l''intelligenza. Li faceva persino visitare dal medico di corte. Non essendo credente, non permise mai all'etica cristiana di interferire sulla scelta dei suoi ministri, che pagò sempre profumatamente ma mai tanto quanto Luigi XV le sue concubine. Queste somme, inoltre, ritornavano alla Russia sotto forma di servizi efficienti.
In quarant'anni ne mutò ventuno: qualcuno morì, qualcun altro si dimostrò infedele, uno era necessario in qualche luogo lontano, un altro si innamorò di una donna più giovane... Caterina non ebbe mai risentimento né odio nei confronti di nessuno di loro, mai li punì, se mai li licenziò, dimostrando superiorità e intelligenza. Di Grigorij Orlov, che le restò al fianco dieci anni, disse con molto amore che sarebbe stato per sempre se non si fosse stancato lui per primo, che aveva la mente di un'aquila, un intuito in ogni campo superiore a chiunque altro, un'onestà rara e che se avesse avuto un'istruzione più adeguata, le sue qualità e i suoi talenti, già supremi, sarebbero stati ancor migliori.
Fu lui infatti che si adoperò per l'emancipazione dei servi della gleba, la liberazione dei cristiani dal giogo ottomano... ma avendo tradito la regina con altre donne, fu esiliato.
Potemkin, il meglio pagato tra gli amanti di Caterina, aggiunse ricchi territori all'Impero. Era ufficiale delle guardie a cavallo, lo stesso dal quale Caterina si era fatta prestare l'uniforme per condurre le truppe contro Pietro. Avendo notato che alla spada della futura regina mancava la nappa che le Guardie portavano con molto orgoglio, Potemkin audacemente si staccò dalle fila per consegnarle la propria. Caterina lo ammirò e ne apprezzò la prestanza fisica. Destinato dal padre al sacerdozio, il giovane Potemkin aveva preferito e scelto invece la vita militare. Era innamorato di Caterina della quale lo attraevano intelligenza e bellezza e diceva che quando lei apppariva in una stanza buia, questa era come se s'illuminasse. Fu divorato dalla gelosia nei confronti di Orlov e per dimenticare la regina si isolò in periferia a studiare teologia con l'intenzione di diventare monaco. Ma Caterina ne ebbe pietà, lo mandò a chiamare a corte e fu gentile con lui, che, tagliatosi barba e capelli, indossò di nuovo l'uniforme e riprese a servire la sua regina. Aveva 35 anni ed era all'apice del suo vigore fisico e del suo fascino quando la regina lo scelse come suo amante. Se lui era lontano lei gli scriveva: il solo pensiero di questa separazione mi fa piangere.... il mio amore per te mi rende cieca...non riesco a distogliere i miei stupidi occhi da te.... Potemkin le propose il matrimonio ed alcuni storici sono convinti che i due si siano sposati in segreto. In molte lettere Caterina lo chiama"marito mio adorato" e parla di se stessa come "tua moglie". Lui però si stancò... e la regina dovette allontanarlo da sé, anche se da quel momento Caterina non scelse più un suo favorito senza la sua approvazione. Fino ad Aleksej, Caterina non fu più innamorata: era bello raffinato, dotato di una certa sensibilità poetica generosità e molta cultura. Improvvisamente colto da insopportabili dolori al ventre, dopo poco egli morì tra le braccia dell' amata regina. Caterina visse tre giorni in isolamento e dolore. "La mia stanza è divenuta un nido vuoto, nel quale mi trascino come un'ombra.... non riesco né a mangiare né a dormire... non so "cosa sarà di me... scrisse poi.
L'ultimo fu Platone Zubov che Caterina trattò come un figlio e che rimase con lei fino alla sua morte.


© rosalia de vecchi





Elena da Persico



Il 17 luglio dell’anno 1869 nasceva, da nobile famiglia, a Verona, Elena Da Persico.
Giornalista, scrittrice e politica italiana, promosse e realizzò opere sociali in difesa e a favore delle donne; fondò, nel 1921, l'istituto secolare delle Figlie della Regina degli Apostoli, le cui prime sedi sorsero a Venezia, Mantova e Trieste e le più recenti si trovano oltre che in Italia, Francia e Inghilterra, anche in Brasile.

Dotata di profondità di sentire e di desto intelletto, già molto giovane conosceva sei lingue. La sua formazione l’abilitava all’insegnamento elementare, ma volle dedicarsi all’attività letteraria: scrisse romanzi e collaborò ad alcune riviste. La morte del padre e le sopraggiunte ristrettezze economiche le imposero di lavorare per contribuire al mantenimento di se stessa e della famiglia, ma preferì sempre dedicarsi all’attività giornalistica e, per necessità, anche a quella di traduttrice dal francese e dal tedesco. Si rifiutava in modo netto di prendere in considerazione qualunque proposta di matrimonio le si offrisse e che la madre sostenesse, cercando di persuaderla a risolvere in questo modo “tradizionale” i problemi di natura economica. Rispondeva che avrebbe sposato soltanto un uomo dedito come lei alla soluzione dei grandi problemi sociali. Nel contempo s’impegnava nello studio di argomenti filosofico- religiosi fino a decidere, infine, di consacrare la propria vita a “illuminare “ le coscienze delle donne e fece anche voto di verginità. Diresse “Azione Muliebre", il primo periodico cattolico femminile, con il quale cercò di sensibilizzare ogni singola donna, qualunque fosse la propria estrazione socio-culturale, l’età e/o la situazione individuale, all’auto consapevolezza, alla propria formazione culturale e alla maturazione della coscienza dei propri diritti civili e dell’importanza fondamentale del proprio ruolo sociale, dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla politica. Pertanto si prodigò a favore della difesa dei diritti della donna, combattendo contro lo sfruttamento del lavoro femminile, partecipando a scioperi e ad azioni volte a chiedere e a promuovere la riduzione delle ore di lavoro, la legittimità del riposo festivo e la dignità della giusta retribuzione. L’attività giornalistica svolta da Elena Da Persico assume valore anche per ciò che riguarda l’osservazione e l’analisi della disparità uomo-donna evidenziate nelle varie situazioni sociali. Uno dei motivi di lotta che costantemente animò la sua attività fu quello del diritto di voto alle donne. Non ammetteva compromessi in questo campo, anzi volle iscriversi al Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, il cui programma prevedeva come uno degli obiettivi principali il voto alle donne, per assumersi in prima persona anche sul piano politico oltre che giornalistico e quindi della diffusione delle idee, l’impegno alla difesa e alla realizzazione di questa equità civile. La sua sincera e profonda educazione cristiana armonizzò con le sue istanze sociali, rendendola ancor più sensibile e aperta nei confronti di molti settori della vita pubblica. Collaborò infatti con la "Società internazionale per la protezione della giovane" di Friburgo e partecipò alla prima Settimana Sociale dei cattolici con una propria relazione dal titolo "La questione femminile in Italia e il dovere della donna cattolica nei tempi presenti". E’ rilevante notare che Elena Da Persico non trascurò di difendere la parità delle donne anche all’interno del movimento cattolico, convinta come si conviene a chi del cristianesimo comprende e pratica la parte più vitale, dell’importanza che sia le donne a se stesse che la società alle donne riconoscano il ruolo indispensabile dell’assunzione femminile di responsabilità in una società che tale sia non solo di nome ma nella realtà quotidiana. Per questo volle anche dedicarsi alla stesura dello Statuto della nascente unione delle donne cattoliche in Italia, essendo essa stessa tra i fondatori sia dell’ “Unione femminile cattolica” che dell’ “Unione Popolare Italiana”. Per quanto riguarda l’istituzione delle Figlie della Regina degli Apostoli, a parte l’aspetto più propriamente religioso, qui ora si vuole mettere in evidenza l’operato etico - sociale cui diede vita Elena Da Persico, il quale, nato da un’ispirazione apostolica e quindi nel suo volersi configurare come dedizione di sé a servizio dei propri fratelli, di fatto risponde ad esigenze reali della società, esigenze presenti nella società del primo novecento ma, malgrado le conquiste politiche e teoriche ottenute, ancor gravemente presenti
oggi. Approvate dalla Santa Sede solo l'8 dicembre del 1954, le Figlie della Regina degli Apostoli nascevano dall’anelito principale di Elena: la “contemplazione dell’azione a servizio dei fratelli”, restare cioè in intima unione col Cristo, vivendo fino in fondo la molteplicità degli impegni, assumendosene la responsabilità e rinnovando l’agire dentro la realtà. Accogliendo donna o uomo, vecchio o bambino di qualunque etnia religione cultura e rispondendo ai reali bisogni di ognuno l’istituzione, come anche i numerosi Convegni che la "Fondazione Elena da Persico" ha promosso su tematiche e problemi di grande attualità, opera non solo per corrispondere ai bisogni umani quali di volta in volta si presentano ad uno sguardo sensibile ma anche e soprattutto vuole continuare ad essere agente promotore di sviluppo sociale e culturale, quale la sua fondatrice ha promosso con il proprio esempio.
Elena Da Persico, che viene anche ricordata come donna di grande signorilità che mai amò alcuna forma di esibizionismo rifuggendone sempre, oggi guardata da ambienti cattolici come degna di beatificazione, morì il 15 luglio 1948 ad Affi in provincia di Verona e nella nostra memoria si colloca, con l’esempio della sua vita e del suo pensiero, nel quadro di valore inestimabile, pur nelle sue poche ma intense e luminose pennellate, che rappresenta le infinite, profonde volontà dell’Io umano quando vibra nella sensibilità dell’animo femminile.

 © rosalia de vecchi







le divinità femminili azteche






Una poesia azteca, un inno ad Ometeotl, recita:



Colui che ci ha dato la vita si fa beffe di noi,
solo un sogno rincorriamo
oh, amici miei,
il nostro cuore ha fede
ma lui si fa beffe di noi
Ma con emozione noi troviamo gioia
in tutto ciò che è verde e nella pittura,
colui che dà la vita ci fa vivere,
lui sa, lui decide
come noi, gli uomini, moriremo.
Nessuno, nessuno, nessuno
vive veramente, sulla Terra.

( Manoscritto/Cantares mexicanos/Biblioteca Nazionale del Messico)



Le figlie della "vecchia madre

Ogni popolo dell'antico Messico aveva le sue divinità femminili : profondamente ambivalenti, esse erano nel contempo dee dell'amore e della fertilità e signore della guerra e della morte. 
Come il popolo Otomis, gli Indiani abitatori della parte centrale del Messico, credevano nella coppia primordiale della "vecchia madre" e del "vecchio padre" da cui discendevano tutte le altre divinità, così gli Aztechi credevano nella coppia Ometecuhhtli/Omecihuatl. E forse questi ultimi derivarono la loro divinità proprio da quella degli Otomis. Infatti presso entrambi i popoli si tratta di una divinità duale. Ometeotl, il nome con cui gli Aztechi indicavano quest'unica divinità dal duplice aspetto, significa proprio "signore della dualità",  come Ometecuhhtli significa "uomo della dualità" e Omecihuatl "donna della dualità". L'origine di Ometeotl è tolteca; se ne trovano tracce nella città di Teotihuacán, sebbene non esistano templi a lui dedicati. L'uomo e la donna della dualità, secondo gli Aztechi, dimoravano nel "posto doppio" e il dio della dualità era chiamato in vari modi, tutti ricchi di fascino: "Padrone di ciò che è lontano e e di ciò che è vicino"; "Inventore di se stesso"; "Colui che dà la vita"...
La "vecchia madre", per alcuni aspetti, la si può collegare anche con la dea Tonacacihuatl: entrambe sono collegate alla nascita, alla nutrizione -in particolare al mais- e pertanto per estensione alla fertilità ed entrambe sono identificate sovente con "colei che indossa una gonna di stelle". Tonacacihuatl è rappresentata anche come una giovane fanciulla con i fiori o come una madre che utilizza il sole come scudo o anche come una donna che possiede l'abbraccio della morte. E' sposa di Tonacatecuhtli, suo fratello e marito, il Dio creatore con il quale ha creato tutte le cose. La loro unione era particolarmente venerata dai Toltechi in quanto vista come il simbolo del rapporto tra sole e luna.

Le divinità femminili erano ritenute, presso i popoli meso-americani, legate alla terra ma anche alla luna: ne possedevano il duplice aspetto. Dee della fecondità e pertanto legate con il sole e con i fiori, esse, non dissimilmente dalle dee celtiche o dalla Devi dell'antica India o dalla Ishtar mesopotamica, per un fatto che va al di là del tempo e dello spazio ed è senza alcuna influenza reciproca, erano anche le "signore della guerra".
Pensiamo, ad esempio, alla dea Itzpapalotl, la "farfalla con gli artigli", la "farfalla di ossidiana", la spaventosa divinità dall'aspetto di scheletro, protettrice delle donne morte durante il parto e rappresentante dello spirito ancestrale delle tztitzimime, gli spiriti femminili dall'aspetto di scheletro provenienti dagli abissi tenebrosi. Oppure pensiamo a Coatlicue, la dea dalla veste di serpente, che, fecondata da una piuma discesa dal cielo, diede alla luce il dio Huitzilopochtli, il grande guerriero. Dea del fuoco e della fertilità, madre delle stelle del sud, Coatlicue è anche la Tlazolteotl degli Huaxtecs, la dea dell'ordine spirituale, colei che divora ogni lordura, ogni peccato dai morti che a lei si confessano ed è anche Tzitzimicihuatl, la dea "del Regno dell'ovest", anch'essa connessa con la fertilità e adorata dalle ostetriche e dalle donne partorienti ed associata alle soprannominate divinità femminili.
Queste figure si mischiano e s'incrociano tra loro per le loro caratteristiche simili e tutte mantengono il duplice aspetto di vita e fertilità e quello di morte, non diversamente dagli antichi miti relativi all'agricoltura, al sonno invernale delle piante, al fiorire e al rinnovarsi della stessa vita....il "Regno dell'Ovest" è il luogo della morte, il luogo in cui il sole sparisce... Un legame particolare con i fenomeni naturali è quello della dea Chalchiuhtlicue, la dea vista anche come dea della bellezza e rappresentata come un fiume che scorre, da cui ha sviluppato l'albero del fico d'India carico di frutta e simbolizzante il cuore umano: il suo infatti è un legame con la natura in un certo senso privilegiato, poiché l'acqua che cade dal cielo è balsamo per la terra, condizione indispensabile per la sua fertilità. Chalchiuhtlicue, "colei che ha la gonna di giada", protettrice di laghi e ruscelli, sposa di Tlaloc, il vecchio dio della terra e della pioggia, che nel "quarto mondo" ha scatenato il diluvio per punire i malvagi, ha protetto l'umanità cambiando gli uomini in pesci in modo che le acque non li annegassero e generando un ponticello che collega la terra al cielo per i suoi protetti. Di lei si narrano diverse storie, ma tutte tra di loro ben collegate in quanto a significato simbolico. Inoltre la si vede come una versione della dea Chicomecoatl, la "rivestita dai Sette Serpenti", che governa il mondo vegetale e dimora nelle profondità della Terra. Il serpente che abita le profondità della Terra è un animale al quale le divinità femminili ctonie azteche sono in raporto quasi sempre costante: Chicomecoatl, Coatlicue, Ciucoatl... Del resto le divinità ctonie sono generalmente femminili. Bernardino di Sahagùn racconta che la dea Ciuacoatl è stata assimilata anche ad Eva e alla Vergine Maria. Maria, anch'essa chiamata "colei che ha la gonna di serpente" è la dea che lotta contro il serpente, simbolo del male e della sciagura. Infatti la basilica di Nostra Signora di Guadalupa, che commemora l'appparizione della Madonna ad un giovane contadino sul monte Tepeyac nel 1531 è stata costruita su un antico tempio dedicato a Coatlicue.
Così le divinità azteche si manifestano tenere e terribili ad un tempo.
Di fatto, alle culture meso-americane è proprio il sentimento della complementarietà piuttosto che quello della contrapposizione: per loro notte e giorno, luce e tenebre non sono antagonisti ma piuttosto complementari, tanto che possiamo contemplare al Museo nazionale di antropologia di Città del Messico la monumentale e terrificante statua di Coatlicue, la dea dalla veste di serpenti, alta due metri e sette, il cui viso è composto da due serpenti che si fronteggiano.


Inno a Tlazolteotl


Il mio cuore è un fiore, è radioso


e governa la notte.


Ecco: è venuta nostra madre


è venuta Tlazolteotl!


A Tamoanchan è nato il dio del mais


tra i fori, è un Fiore!


Egli è nato nel paese della pioggia e della bruma,


nel paese dei fiori, Egli è un fiore!


... ... .... .... .....